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I fondamenti del raja yoga:
yama e niyama

a cura di Riccardo Grosso

Testo originale di Mahendra (Riccardo Grosso)
Questo testo è distribuito con licenza creative commons

 

Introduzione

1) Yoga e Occidente

«Dove stiamo andando? Sempre a casa».
Novalis, Aforismi


Nel secolo scorso e fino alla metà di quello attuale, coloro che si occupavano di filosofie orientali e specificatamente di Yoga erano molto pochi e di estrazione piuttosto omogenea: filosofi, alcuni missionari (soprattutto di sette protestanti) aperti e sensibili che entrati in contatto con le realtà orientali ne rimasero affascinati; studiosi desiderosi di rispondere agli interrogativi più profondi e angosciosi della natura umana, spesso delusi dalle teorie e dai metodi che le nostre religioni, scienze e filosofie mettevano a loro disposizione.
Per la maggior parte di costoro avvicinarsi allo Yoga non fu un fatto fortuito e casuale, ma una scelta volontaria e coraggiosa che spesso li pose per la loro reale o presunta stranezza, ai margini della società in cui vissero.
Questo atteggiamento attivo, frutto di volontà deliberata (fino a qualche decennio fa i viaggi non erano così facili e sicuri come oggi; i pregiudizi verso tecniche definite esotiche e strane erano molto forti; alcuni dei testi fondamentali erano accessibili solo in sanscrito) portò a risultati rilevanti, almeno dal punto di vista teorico, specialmente in Germania, in cui la tradizione mistica spesso si avvicinò alle concezioni dell'Induismo.
Basti ricordare F. Mayer, orientalista che stimolò A. Schopenhauer allo studio della filosofia indiana, che pervase profondamente tutto il suo sistema di pensiero ed ebbe la sua piena manifestazione nella sua opera più nota, "Il mondo come volontà e come rappresentazione".
In Francia, nel 1889, E. Schurè, noto orientalista, pubblicò "I grandi iniziati", in cui tracciò la storia dei fondatori dei «misteri»,tra i quali Rama e Krishna, collegandone gli insegnamenti in modo suggestivo, tale da far emergere un unico grande disegno, una religione «universale».
In Italia, il nostro poeta Giacomo Leopardi, sviluppò una visione “negativa” della natura, chiamandola “matrigna”, cioè malevola. Per molti versi le sue concezioni rispecchiavano quelle del suo contemporaneo Schopenhauer, col quale aveva notevoli affinità di vedute. Il poeta disse che la lettura delle Upanisad fu una delle poche consolazioni della sua vita.
Tra le due guerre vi fu, nuovamente in Germania, un rinascere dell'amore per questi studi, un pullulare di società teosofiche ad essi ispirati, e il rappresentante più noto di questi studiosi e scrittori fu certamente H. Hesse, che dipinse nei suoi romanzi, racconti ed impressioni di viaggio in modo preciso e poetico il difficile percorso dell'individuo verso il cammino che porta alla perfezione.
Molto diversa è la situazione ai giorni nostri, nel bene e nel male.
L'evoluzione della nostra società, l'apparente cosmopolitismo, il progressivo ridursi delle distanze fisiche e mentali dovute alla rapidità delle comunicazioni, l'abbandono di molti pregiudizi e chiusure mentali hanno permesso il diffondersi ed il successo dello Yoga e delle discipline orientali in genere, spesso senza molta discriminazione.
Questi stessi motivi, uniti alla superficialità, alla fretta, al desiderio di fruire immediatamente e senza sforzo a cui siamo abituati, conducono inevitabilmente a svilire la disciplina stessa e a decretare molti insuccessi di coloro che intendono intraprendere questo difficile cammino.
La struttura della società occidentale contemporanea, tipica delle civiltà industriali avanzate, è saldamente fondata sull'avere; ovvero, ognuno di noi non viene valutato per ciò che realmente è, ma per ciò che possiede.
A questo proposito, è illuminante un saggio di E. Fromm, Avere o essere: "In una cultura in cui la meta suprema sia l'avere - e anzi l'avere sempre di più - e in cui sia possibile parlare di qualcuno come di una persona che vale un milione di dollari, come può esserci un'alternativa tra avere ed essere? Si direbbe, al contrario, che se uno non ha nulla, allora non è nulla".
Ed il senso di possesso non si ferma solamente agli oggetti, ma si estende anche alle persone, alla conoscenza, al sapere, all'amore ed agli oggetti d'amore, alla fede, alle amicizie, ai figli, alle idee.
Prosegue Fromm: "La proposizione I (soggetto) ho O (oggetto) esprime una definizione dell' I tramite il mio possesso dell' O. Il soggetto non è più il mio io, bensì l'io sono ciò che ho. La mia proprietà mi costituisce e costituisce insieme la mia identità. L'idea sottesa all'affermazione `io sono io' è `io sono io perché ho X', intendendo con X tutti gli oggetti naturali e le persone con le quali istituisco un rapporto tramite il mio potere di controllarli, di farlo permanentemente. C'è però una relazione inversa: le cose hanno me, pecche il mio sentimento di identità, vale a dire il mio equilibrio mentale, si fonda sul mio avere le cose. Esso rende cose sia il soggetto che l'oggetto. Il rapporto è di morte, non di vita".
Una siffatta concezione di vita, non può certo portare alla serenità ed al distacco, poiché più possediamo cose, più corriamo il rischio di perderle, che ci vengano sottratte o che perdano il loro valore.
Inoltre, ritenendo anche le idee, le convinzioni, la fede non come attributi dell'essere, che quindi possono essere dinamicamente modificati ed arricchiti, ma come possessi statici, così pure possiamo porci di fronte allo Yoga, ed assimilarlo, fruirlo e cristallizzarlo come una qualunque altra forma di conoscenza.
Ma lo Yoga è per eccellenza un attributo dell'essere. Per seguirne la strada è necessario sgombrare la mente da pregiudizi, tendere alla libertà, essere determinati ed agire deliberatamente. Tutte queste qualità sono la negazione dell'avere, e perciò in completo disaccordo con il modo di vivere attuale.

2) L'individuo e lo Yoga.


Una società che abbia per fine e massima espressione di felicità l'avere, e l'avere sempre di più, non può che allontanarsi dalla vera essenza e piombare in uno stato di scontentezza ed alienazione.
Inoltre l'attuale fenomeno di massiccio disinteresse per la religione, che finora aveva colmato, sia pure con lacune e mancanze, il bisogno di spiritualità delle passate generazioni, ha lasciato un vuoto, che l'uomo, nel suo innato bisogno di trascendenza ha tentato di colmare in qualche modo, a volte dibattendosi sprovveduto ed incerto per l'abitudine secolare (specialmente delle popolazioni cattoliche) di credere in una fede senza il minimo giudizio critico e senza conoscenza diretta ed approfondita dei testi sacri fondamentali.
Si assiste così al proliferare di movimenti sia in seno alla Chiesa stessa (quali Comunione e Liberazione, i Neocatecumeni...),che se da un lato portano ad un rinnovamento, dall'altro presentano preoccupanti aspetti di integralismo ed intransigenza, sia un disordinato brulicare di sette non tradizionali, molte delle quali nascondono profondi e vergognosi interessi economici (Dianetici, sette pseudo-orientali).
Non rari sono i casi di sedicenti Guru (specialmente negli Stati Uniti) che approfittando dell'ingenuità e dei disperati bisogni spirituali dei loro seguaci, costruiscono ingenti fortune (il caso di Shree Rajneesh ne è un chiaro esempio).
Attualmente siamo in piena era new-age, in cui si vedono sorgere in tutti i paesi occidentali le più disparate tecniche spirituali, a volte basate su antichi riti e credenze di popoli dimenticati, a volte assolutamente originali (in tutti i sensi). Improbabili guru si mischiano a seri ricercatori, gettando ancora maggiormente nel dubbio e nell’incertezza i nuovi adepti. Per rendersi conto di ciò è sufficiente sfogliare una delle tante riviste dedicate alla new-age, dove a spiritualità e ricerca interiore si mischiano con disinvoltura interessi economici e gestioni manageriali.
In questo panorama generale leggermente sconfortante, si inserisce il crescente interesse per lo Yoga.
Per alcuni l'approccio può essere alquanto superficiale: poiché l'Hata Yoga rende il fisico elastico ed aggraziato, lo mantiene sano, viene praticato come una qualsiasi ginnastica; inoltre abbinato alle tecniche di respirazione combatte lo stress, l'insonnia ed è perciò divenuto un rimedio naturale ed alla moda per alcuni strati della società.
Altri ancora ne fanno un uso prettamente terapeutico: nelle rieducazioni degli arti o della colonna vertebrale in seguito a traumi ed operazioni chirurgiche; inoltre lo Yoga, ristabilisce un perfetto equilibrio psico-fisico ed è perciò indicato per la cura di malattie somatiche o psichiche anche serie o complesse.
Alcuni si avvicinano allo Yoga perché spinti da amici, per moda o solitudine; molti per il già citato bisogno di spiritualità, altri ancora per genuino interesse ed affinità di sentimento.
Il motivo per cui si intraprende questo cammino sono alquanto vari, diversi certamente per ogni individuo. Dei molti che lo intraprendono, pochi sono capaci di portarlo avanti con serietà, pochissimi lo accettano come sistema di vita, perché il percorso è alquanto difficile e spesso si ignorano o si tralasciano i precetti fondamentali.
Lo Yoga, nella concezione classica di Patanjali si compone di otto stadi: « Le astinenze (yama), le osservanze (niyama), le positure (asana), il controllo del respiro (pranayama), l'astrazione (pratyahara), la concentrazione (dharana), la contemplazione (dhyana), l'enstasi (samadhi), sono le otto parti (della disciplina)». Patanjali, Yogasutra, II-29.
Solo la pratica costante e progressiva dei vari stati (o membra) dello Yoga possono portare ad un effettivo progresso. Può sorgere qualche dubbio sull'interpretazione di questo versetto; su come debbano essere praticati i vari stadi, se sequenzialmente, indipendentemente l'uno dall'altro, se sia possibile saltarne qualcuno.
A questo proposito è illuminante un brano tratto dal commento a questo sutra di I.K. Taimni: « L'unico punto degno di considerazione di questo sutra è se gli otto stadi di questo sistema vadano considerati parti indipendenti, oppure stadi che si susseguano l'uno all'altro in sequenza naturale.
L'impiego del termine anga, che significa membra, implica che essi vanno concepiti come parti relazionate ma non consecutive; ma il modo nel quale Patanjali si è occupato di essi nel testo mostra che possiedono una certa relazione di sequenzialità. Chiunque esamini attentamente la natura di questi elementi non mancherà di vedere che hanno riferimento l'uno all'altro in modo preciso e che si susseguono naturalmente nell'ordine in cui sono elencati. Nell'esercizio sistematico dello yoga superiore, pertanto, essi vanno presi nel senso di stadi successivi, e si dovrà aderire il più possibile all'ordine nel quale sono dati. Ma, potendo un sadaka (adepto) impiegare per i propri esercizi qualunque degli anga senza seguire strettamente questa sequenza, tali membri potranno pure venire considerati in qualche misura indipendenti».
Per coloro che seguono lo Yoga con serietà e che aspirano alla liberazione per suo tramite valgono due considerazioni: benché i vari stadi possano essere considerati in qualche misura autonomi, è impensabile di giungere, per esempio, al dhyana, senza praticare yama e niyama: non si può ottenere il controllo della Mente se prima non si è perfettamente dominato, fino ad averli completamente trascesi, l'istinto alla violenza, all'attaccamento, alla lussuria...; ciò non preclude, tuttavia, lo sviluppo o perfezionamento di più stadi contemporaneamente, soprattutto considerando separatamente i primi cinque livelli dagli ultimi, trattandoli, un po' arbitrariamente, come due gruppi omogenei, il secondo da intendere come yoga superiore. Non vi è infatti contraddizione nel praticare le asana mentre si perfezione le virtù dell'austerità o studio di sé; gli ultimi tre anga non sono che l'affinamento progressivo di un'unica tecnica. La seconda considerazione, basata sempre sui sutra di Patanjali, e - mente nell'I-23 e nel II-45, è che attraverso l'isvara-pranidhana (l'abbandono a Dio), una delle cinque virtù componenti niyama, si possa pervenire al samadhi, ovvero al più alto stadio dello Yoga attraverso ad un sentiero alternativo ed indipendente dall'astanga-yoga.
Da queste poche considerazioni, risulta la fondamentale importanza di yama e niyama, le quali, seppure spesso neglette o date per scontate, sono le qualità essenziali per poter progredire sulla via dello Yoga.
I motivi per cui questi primi livelli sono trascurati, possono essere molteplici: trattando di virtù morali e sociali apparentemente elementari, in parte assimilabili a quelle che anche un "buon selvaggio" potrebbe praticare, e genericamente associabili (almeno parzialmente) a quei principi che ogni società civile applica (compresa la nostra, quindi), si dà per scontato che chi si avvicina spontaneamente allo Yoga già le pratichi.
Alcuni di coloro che praticano lo Yoga sono spesso affascinati dalle componenti esoteriche della disciplina stessa: la meditazione, il distacco, le siddhi, i poteri straordinari ad essa connessi, un tempo gelosamente custoditi e rivelati solo agli iniziati, mentre oggi non sono più segreti, anche per coloro che non hanno mai neppure praticato i rudimenti della disciplina. Parlare a costoro di astensioni, austerità, pratiche spesso umili e noiose non farebbe che forse allontanarli dalla disciplina, e dove l'insegnamento dello Yoga è divenuto un puro fatto economico, un sistema per "fare soldi", non è forse il caso di insistere oltre misura su questi principi così scomodi e distanti dalla mentalità corrente.
Un altro motivo di disinteresse potrebbe essere questo: molti di coloro che si avvicinano alla disciplina, hanno abbandonato una religione ufficiale, nel nostro caso prevalentemente la Chiesa cattolica, nella quale non si rispecchiano più, non trovando i valori spirituali a cui aspirano. Per reazione, si rifugiano in qualcosa di completamente altro; cercano valori, filosofie, dogmi, totalmente diversi, quasi esclusivamente spirituali, a volte persino un po' astrusi. Lo scoprire di dover sottostare ed anzi sviluppare al massimo grado di perfezione dei precetti che ad uno studio superficiale sono simili ai familiari comandamenti, non fa che acuire quel senso di repulsione ed esasperazione che li ha condotti ad abbandonare la loro congregazione religiosa.
Spesso leggendo racconti o bibliografie di grandi yogi indiani o tibetani, si incontrano figure secondarie che apparentemente dispongono di notevole saggezza o grandi poteri pur non rinunciando a condurre una vita normale, simile alla nostra, mantenendo l'attaccamento alle proprietà, all'io, al sesso, alle comodità : sembrerebbe che pur procedendo sulla strada dello Yoga, forse non sia necessario esercitare un rigore morale così rigido come quello esposto da Patanjali. Purtroppo per coloro che vogliono perfezionarsi attraverso lo Yoga, non vi è altro metodo. Cito ancora Taimni: «...vi è poi una classe di yogi che hanno decisamente intrapreso il sentiero `della mano sinistra', e che sono detti "fratelli d'ombra". Possiedono poteri di vario tipo, sono privi di scrupoli e pericolosi, sebbene all'esterno possano adottare una modalità di vita che li fa sembrare pii. Ma chiunque possieda un'intuizione sviluppata può localizzare queste persone e distinguerle rispetto ai seguaci del sentiero "della mano destra" per la loro tendenza alla crudeltà, alla mancanza di scrupoli e alla presunzione.
...Suo obiettivo (del sadaka) non è lo sviluppo di poteri che possano venire impiegati per auto-gratificazione o soddisfazione della propria presunzione; sul sentiero dello Yoga superiore, è essenziale una moralità di ordine elevatissimo; e non si tratta di una moralità di tipo convenzionale, e neppure di una moralità del consueto tipo religioso».
Queste affermazioni che appaiono così categoriche non vogliono escludere che vi siano vie più moderate nell'osservanza di yama e niyama, e non comportino un totale abbandono dei valori mondani; avvisano semplicemente i cultori dell'astanga yoga che non vi può essere un progresso significativo nella disciplina che hanno intrapreso, nel sentiero verso la liberazione, se non seguendo integralmente questi precetti fondamentali.

3) Yama e Niyama.

Yama e Niyama, come già anticipato, corrispondono alle astensioni ed alle osservanze.
« I voti di astinenza (yama) comprendono l'astenersi dalla violenza (ahimsa), dalla falsità (satya), dal furto (asteya), dall'incontinenza (brahmacharya) e dall'avidità (aparigraha) ». Patanjali, Sadhana Pada, II-30.
« La purezza (sauca), l'appagamento (samtosa), l'austerità (tapa), lo studio di sé (svadhyaya), l'abbandono a Dio (Isvara-pranidhana) costituiscono le cinque osservanze (niyama) »
. Patanjali, Sadhana Pada, II-32.

E' mirabile come Patanjali, in soli due versetti sia riuscito a condensare il fondamento della vita yoga.
Il paragone con i Comandamenti della nostra religione viene spontaneo, e si possono riscontrare alcune similitudini, a partire dal numero dei precetti, dieci per entrambi.
Ma le somiglianze non si limitano a particolari fortuiti o banali; l'amore per Dio, il non uccidere, non rubare, la continenza, la sincerità sono comuni ad entrambe le correnti di pensiero.
La differenza profonda che si avverte ad un'analisi più attenta consiste nelle intenzioni con cui sono stati formulati i precetti: nei Comandamenti l'accento è posto sulle azioni da compiere oppure no; in Yama e Niyama sui concetti a cui uniformarsi.
Da ciò è evidente che non vi può essere un confronto diretto tra i due sistemi, perché agiscono su piani diversi, come pure sono diverse le persone a cui si rivolgono.
I Comandamenti sono stati scritti per un popolo sbandato, vagante in un deserto, senza sicurezze, apparentemente abbandonato dal suo Dio, e perciò esasperato, 'dal cuore duro', quasi senza ideali.
Pertanto le regole di vita date loro dovevano essere essenziali, chiare, dure e senza sfumature: 'non uccidere', 'non desiderare la donna d'altri', 'onora il padre e la madre', sono intelligibili da chiunque, non richiedono interpretazioni e non lasciano dubbi sulla loro applicazione.
Si possono considerare quindi come il livello minimo per una convivenza socialmente accettabile, sostenuti da una spiritualità anch'essa piuttosto modesta.
L'avvento di Gesù e l'introduzione del precetto di amore `totale', relativo all'umanità nella sua interezza, rivolto sia verso i propri cari, sia specialmente ai nemici, ai reietti, agli abbandonati, ai delinquenti, nei quali si riflette la grazia di Dio, ne eleva notevolmente il valore assoluto.
Anche il concetto della Divinità subisce un'evoluzione: dall'idea di un Dio 'giusto ma terribile', un padre severo e geloso, necessario per mantenere fedele e compatto nella paura del Castigo il popolo ebreo, si passa alla concezione di un Dio sì giusto, ma misericordioso, che sa capire e perdonare le miserie e le debolezze cui è soggetta la natura umana.
Tuttavia furono e sono tuttora dei precetti per una vastissima fascia di persone, di ogni condizione e ceto, di ogni livello intellettuale e culturale, e quindi per loro natura restarono essenzialmente semplici e schematici; ciò non toglie che la loro applicazione sincera e disinteressata possa portare ad alti livelli di perfezione individuale, a riprova che nonostante vi siano molte strade verso il cammino della Liberazione, sia importante non tanto la via scelta (che deve essere in armonia con il proprio essere), quanto piuttosto la purezza di intenti con la quale la si persegue.
Il discorso su Yama e Niyama è molto diverso: essi sono stati formulati per una piccolissima élite, dedita a pratiche fisiche e spirituali eccezionali: in India, in Tibet, ora come secoli fa gli adepti dello Yoga, del Tantra, del Buddhismo furono pochissimi, ed i grandi saggi realizzati sono paragonabili per numero e qualità ai nostri maggiori santi.
Il paragone non è del tutto casuale: la 'regola' di S.Francesco, come quella adottata da molti altri santi dotati di una spiritualità semplice e profonda, rispecchia con poche e quasi trascurabili sfumature, i precetti propugnati da yama e niyama.
Perciò è improprio confrontare direttamente i Comandamenti con yama e niyama, altrimenti l'impressione che se ne potrebbe ricavare sarebbe di aridità e povertà dei primi nei riguardi dei secondi.
I Comandamenti dovrebbero essere confrontati con i precetti che regolano la vita della semplice popolazione hindù ed il divario di valori forse non sarebbe notevole. Infatti il divario del comportamento ispirato dai Comandamenti rispetto a quello seguito da grandi santi, asceti o penitenti, non è molto diverso dal modo di vivere di un qualunque hindù o buddhista nei confronti di uno yogi sulla via della realizzazione.
Perciò mentre i Comandamenti sono paragonabili alle leggi che regolano la vita delle persone comuni in Occidente come in Oriente, le osservanze e le astinenze che stiamo analizzando riguardano coloro che ricercano la via che conduce alla liberazione, e che pertanto perseguono un destino particolare, per sua natura difficile da raggiungere, ma il cui raggiungimento è forse lo scopo ultimo della nostra esistenza.
Come ho accennato prima, i Comandamenti trattano azioni; Yama e Niyama concetti. Forse è il caso di approfondire la differenza sottile ma essenziale dei termini. Mentre i Comandamenti si limitano a dire come comportarsi in una determinata circostanza, senza badare all'atteggiamento emotivo e morale di chi li compie, i precetti dello Yoga non dicono solo come comportarsi in una determinata circostanza, ma soprattutto quale atteggiamento mentale tenere.
'Non uccidere' (da applicarsi quasi esclusivamente ai propri simili) è molto diverso da essere 'non violento' (ahimsa). Il primo riguarda principalmente l'atto in sé; l'importante è il non uccidere il proprio simile; il non commettere un delitto non preclude l'essere pieni di odio o di livore. La pratica della non-violenza, al contrario, tende a cancellare i motivi di odio, di paura, di avversione o di presunta superiorità verso gli altri esseri viventi (in qualsiasi forma si presentino); secondariamente, e come di riflesso, l'atto di violenza diventa impossibile, perché la causa e le motivazioni che ne sono alla base vengono a cadere.
Per comprendere chiaramente le qualità componenti Yama, è necessario precisare il significato dei termini, che trascendono quello corrente dato alla traduzione italiana. Per esempio, 'ahimsa' (non-violenza), non ha solo una qualità passiva (astenersi dalla violenza), ma anche una attiva, dinamica, di amare tutto ciò che ci circonda; 'satya' non vuol solamente dire 'non falsità', ma soprattutto amore per la verità; 'apharigraha' non è esclusivamente 'non-avidità', ma capacità di donare, di condividere con gli altri quanto possediamo.
E' evidente che una morale di questo genere è di grado elevatissimo, e che tentare di portare anche una sola di queste virtù ad un alto grado di perfezione possa sembrare arduo, se non addirittura impossibile. Eppure l'esempio dei saggi, dei santi, di coloro che hanno raggiunto la Liberazione, ci insegnano che non è impossibile. Una pratica continua, attenta, paziente, la capacità di non abbattersi per i continui insuccessi, per la fragilità della nostra natura, abbinata nella fede che il traguardo, in tempi lunghi, o addirittura lunghissimi è raggiungibile, ci può portare a lenti ma continui progressi verso la meta prefissata.
Viene spontanea la domanda: «Perché nella pratica dello Yoga non è sufficiente una moralità ordinata, un moderato indulgere nei piaceri che la vita ci può offrire ?». Anche nello Yoga, che si è sviluppato nel corso di migliaia di anni, vi sono delle sfumature a proposito. Accanto a teorie assolutamente ascetiche, a volte addirittura inumane, fiorirono pratiche più moderate. In alcune, per esempio, è consentito il matrimonio, e spesso grandi saggi sono stati sposati ed hanno avuto numerosi figli; è anzi pratica comune in India che anche coloro che ambiscono ad una vita spirituale abbiano una famiglia e che poi, dopo aver condotto una vita pia, nella vecchiaia, si ritirino in solitudine a meditare ed a compiere pratiche di devozione. Lo stesso Buddha, prima iniziare il suo cammino, ebbe una moglie ed un figlio.
Il seguire l'una o l'altra corrente dipende dalla nostra sensibilità e predisposizione; e se una vita familiare a prima vista sembra più semplice e naturale, nasconde spesso delle insidie e delle difficoltà addirittura superiore ad una vita ascetica; ancora le parole di I.K. Taimni illustrano lucidamente il problema: «La finalità principale di questo inflessibile codice etico è di eliminare completamente tutti i disturbi mentali ed emotivi che caratterizzano la vita dell'essere umano ordinario. Chiunque abbia familiarità con il lavoro della mente umana non dovrebbe trovare difficile comprendere che non è possibile alcuna libertà dalle turbe emotive e mentali finché le tendenze di cui lo yama-niyama si occupa, non siano state sradicate o, almeno, non siano state padroneggiate in grado sufficiente. L'odio, la disonestà, il disprezzo, la sensualità, la possessività sono alcuni tra i vizi più comuni ed inveterati della razza umana, e finché un essere umano è soggetto a tali vizi, nelle loro forme sia crude che sottili, la sua mente resterà preda delle turbe emotive violente o scarsamente percettibili che hanno in tali vizi la loro prima origine. E finché tali turbe continueranno ad affliggere la mente, sarà inutile intraprendere l'esercizio più sistematico ed avanzato dello yoga».
Queste parole, chiarissime e dure, possono raggelare gli entusiasmi di molti tra coloro che si avvicinano o già da molto tempo praticano lo Yoga. Questa è la via; anzi, è la parte finale della via, quella che conduce alla Liberazione finale da tutti i vincoli. Ma questa perfezione non si raggiunge in poco tempo; per coloro che credono nella teoria della reincarnazione è il frutto della sofferenza e dell'affinamento di innumerevoli vite. Quindi, poiché lo scopo prefisso è elevatissimo, è molto difficile raggiungerlo in breve tempo, sia pure nell'arco di una singola esistenza, se non da uno spirito molto progredito ed eccezionalmente tenace e dotato; perciò è necessario intraprendere il cammino con pazienza ed umiltà, nelle forme che più ci sono consone; attraverso al Karma-marga (compimento del proprio dovere in modo disinteressato); al Bhakti-marga (la devozione ed amore per Dio), al Jnana-marga (per mezzo dello studio e della conoscenza, allo Yoga-marga (attraverso al controllo della mente).
Le descrizioni e gli attributi di queste diverse vie (margas), sono date in un libro meraviglioso ed antichissimo, la Bhagavad Gita (Il canto del Beato), in cui Sri Khrisna, il signore supremo, impartisce sul campo di battaglia ad Arjuna, un grande eroe e uomo giusto, gli insegnamenti fondamentali sui precetti della devozione, della meditazione trascendentale, della conoscenza, dell'azione disinteressata.

4a) Yama

«I voti di astinenza (yama ) comprendono l'astenersi dalla
violenza (ahimsa), dalla falsità (satya), dal furto (as-
teya), dall'incontinenza (brahmacarya) e dall'avidità
(aparigraha)».
Patanjali, sadhana pada, II-30.


«Tutti i santi e i venerabili del passato, del presente e
del futuro ,tutti dicono, annunciano, proclamano e dichia-
rano: Non uccidere, né maltrattare, né ingiuriare, né tor-
mentare, né perseguitare nessuna specie di creatura, nes-
suna specie di animale, né alcun essere di nessuna sorta.
Ecco il punto, eterno e costante principio della religione
proclamato dai saggi che comprendono il mondo!».

Ayaramgasutra, tradizione Giainista, III sec. d.C.


«Non uccida, non massacri nessun essere vivente, né inciti
altri ad uccidere; sia inoffensivo con tutti gli esseri che
vi sono nel mondo, mobili ed immobili».

Sutra di Dhammiko, Buddha

Vorrei ora analizzare più profondamente ogni singolo precetto componente Yama, ovvero le virtù sociali.
Ahimsa. Come già accennato nel capitolo precedente, ahimsa vuol dire non violenza. Apparentemente il significato del termine è evidente e si sarebbe tentati di andare oltre senza approfondire eccessivamente.
In realtà, la perfetta comprensione di 'non-violenza' è alquanto complessa, né io penso in questa esposizione di scendere molto oltre la superficie del problema. L'analisi inizia dagli aspetti più evidenti per poi scendere a quelli più sottili. Il primo aspetto che si presenta è quello di non uccidere. Non uccidere i propri simili, gli animali, le piante. Purtroppo già questi primi aspetti, all'apparenza macroscopici, vengono disattesi ovunque con una frequenza preoccupante.
E' sufficiente leggere un quotidiano o guardare un notiziario alla televisione per sapere quante guerre, dichiarate o no, imperversano per il mondo. Quanti nostri simili vengono inutilmente uccisi, massacrati, torturati, privati dei loro diritti elementari e della dignità umana. Le creature più deboli, che non hanno la voce per protestare né la forza di difendersi, gli animali, non subiscono una sorte migliore. Vengono uccisi per diletto, per dimostrare una nostra presunta superiorità, per nutrirci. Ci comportiamo verso di loro come se noi fossimo i signori del creato, con assoluto potere su di loro e non come compagni di viaggio. Non mi soffermo sui motivi per cui essere vegetariani, né costituzionali (l'uomo non ha la struttura e l'apparato digerente di un carnivoro),né i vantaggi per la salute (l'accertata associazione di molte gravi malattie all'assunzione di carne), né ultimo, le turbe del carattere associate al cibo animale (maggiore predisposizione alla violenza, all'ira, alla lussuria).
Da studi recenti appare sempre più evidente che anche i vegetali possiedono una loro acuta sensibilità. Quindi è necessario anche nei loro riguardi comportarsi con la massima attenzione. Anche se sono alla base della nostra alimentazione, non bisognerebbe abusarne: acquistare (o coltivare) quelle verdure la cui raccolta pregiudichi il meno possibile la sopravvivenza della pianta; come i cereali, che si raccolgono ormai secchi; oppure i frutti maturi, che hanno terminato il loro ciclo vitale. Inoltre non bisognerebbe neppure mantenere delle scorte eccessive di alimenti deperibili, per evitare di sprecare inutilmente sostanze viventi, la cui crescita ha richiesto dispendio di energia, di tempo, di sofferenze.
Anche la raccolta di fiori, quando non servano ad uso officinale o alimentare, mi sembra una violenza inutile: quale piacere estetico è più puro di vedere un fiore nel suo ambiente naturale, e poi serbarne un prezioso ricordo?
Queste precauzioni possono apparire eccessive, forse addirittura maniacali; ma se crediamo nelle filosofia Yoga, possiamo capire quanto ogni vita, in qualsiasi forma si presenti, sia preziosa e rappresenti per l'essere in cui si manifesta un occasione di avanzamento spirituale; se interrompiamo questo processo, anche involontariamente, appesantiamo il nostro karma (insieme delle azioni commesse in questa vita ed in quelle precedenti).
Ahimsa non vuol dire solamente non uccidere, ma l'essere completamente inoffensivo; pertanto la prevaricazione esercitata sugli altri esseri, sia essa fisica o morale, irridere le convinzioni o le credenze altrui, rientrano nell'ambito delle azioni da evitare. Ma la non-violenza non consiste in un elenco di comportamento pratico; essa è una qualità dinamica della mente, e come tale varia nell'applicazione con le circostanze, poiché ogni situazione è unica ed esige un modo di affrontarla nuova e vitale. La giusta visione non è data in modo meccanico, solamente soppesando l'insieme dei fatti, ma è una facoltà della buddhi, la facoltà discriminativa, che attraverso un lungo tirocinio, riesce sempre con minore approssimazione a compiere l'azione giusta.
Molti tendono ad affermare che la perfetta ahimsa è irraggiungibile e quindi ne traggono un alibi per comportarsi nel modo più comodo o piacevole. Ma chi si vuole perfezionare, non deve badare a queste deboli giustificazioni; sorveglia la propria mente, le parole e le azioni e comincia a metterle il accordo con tale ideale. Analizza il proprio comportamento e ne trae un insegnamento per il futuro. Lentamente, avanzando nella pratica, la crudeltà, le ingiustizie insite nei suoi pensieri gli si rivelano gradualmente e ciò gli permetterà di riconoscere intuitivamente il giusto comportamento in ogni circostanza. Lentamente il concetto di inoffensività si muterà in quello di amore, di amore dinamico e positivo, inteso sia come compassione che come servizio verso gli altri.
Il concetto di amore richiede alcune precisazioni. Per essere totale, deve essere impersonale e disinteressato. Questa affermazione può apparire un poco strana, poiché siamo abituati ad amare i nostri cari, coloro con i abbiamo un rapporto di affetto e di simpatia. Questo genere di amore è però alquanto instabile: un mutamento di interessi, un ingratitudine, un tradimento, lo stesso scorrere del tempo possono farlo diminuire o addirittura cessare. L'amore rivolto ad ogni essere vivente in quanto tale, senza badare se sia simpatico o odioso, bello o brutto, non può mai venire meno, generando una corrente di compassione (nel senso etimologico del termine, ossia di conoscere il dolore altrui e condividerlo) che non si esaurisce.
Questo sentimento è insito nella cultura hindù (intesa in senso ideale, indipendentemente dalle sue manifestazioni effettive): infatti è più facile amare credendo che in ogni creatura viventi alberghi un'anima immortale, incarnatasi su questa terra per intraprendere il suo cammino spirituale, e che tornerà sotto svariate forme, fino a quando, purificatasi attraverso la sofferenza, non spezzerà la catena delle rinascite.
Il concetto di compassione universale (karuna) e benevolenza universale (maitri) sono alla base della dottrina di Gotama, il Buddha: «La mia dottrina è una dottrina di compassione: ecco perché i felici del mondo la trovano difficile. Bisogna rispettare l'ordine stabilito delle cose, ma la via della salvezza è aperta a tutti; la nascita non condanna nessun essere alla ignoranza e alla disgrazia...» E dicendo che la via della salvezza è aperta a tutti, si può intendere non solo gli uomini, ma a tutti gli esseri viventi. In Giappone si celebra ogni anno una cerimonia del buddismo Mahayana, «The animal-releasing ceremony», in cui vengono liberati animali che sono stati comprati apposta per salvarli dalla prigionia e dalla sofferenza.
Nel messaggio che il quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso (la più alta autorità politica e religiosa del Tibet),pronunciò ad Assisi nel 1986 il giorno delle Preghiere per la Pace del Mondo, c'è questa frase testuale: «My religion is very simple: my religion is kindness». (la mia religione è bontà, gentilezza). Sono occorsi secoli, millenni di incommensurabili sofferenze individuali e storiche, (un esempio sono quelle patite nel silenzio e disinteresse universale dai Tibetani...) per poter giungere a formulare una affermazione breve e profonda come questa.
Parallelamente ad ahimsa, procedono abhaya (libertà dalla paura) e akrodha (libertà dall'ira). L'uomo comune vive immerso nelle paure: quella di perdere il proprio benessere, le persone care, del futuro, della morte... Ciò è causata dall'ignoranza, che porta a identificare noi stessi al nostro corpo, ed a legare ad esso il nostro destino. Sebbene il corpo sia soggetto alle malattie, all'invecchiamento ed infine alla morte, lo spirito rimane inalterato.
Quando si raggiunge la consapevolezza non solo intellettuale ma profonda ed intuitiva di ciò, le paure improvvisamente spariscono ed anzi la certezza della morte è uno stimolo ad impiegare questa vita nel migliore dei modi, compiendo il proprio dovere disinteressatamente, amando il prossimo e Dio.
Vi sono due tipi di ira, uno che degrada, l'altro eleva. La radice del primo è l'orgoglio e l'attaccamento al proprio io limitato e conduce agli eccessi che ognuno di noi purtroppo conosce. Il manifestarsi dell'ira conduce al disprezzo, al rancore ed all'odio. Perciò è evidente il motivo per cui tutti noi ce ne dovremmo astenere. Il secondo tipo è, per esempio, quella che lo yogi manifesta verso sé stesso quando sbaglia, quando la sua conoscenza del giusto non lo trattiene dalla follia e dall'errore.
Spesso parliamo della giustizia. La pretendiamo quando riceviamo qualche torto, ma imploriamo comprensione e perdono quando siamo noi a commetterlo. L'adepto, viceversa, sa che dovrebbe esserci giustizia per una sua mancanza, e pietà per quella commessa da un altro.
Approfondendo lo studio dei Sutra di Patanjali ci si rende conto sempre più chiaramente di quanto le virtù che compongono Yama e Niyama siano intimamente legate ed interdipendenti, e che la mancanza di una sola di queste qualità portino a decadere l'intera struttura di cui sono alla base.
Infatti, come può un individuo essere non violento e poi venir meno alla pratica della verità, calunniando altre persone, o appropriandosi di ciò che non gli appartiene, o essere tanto attaccato al possesso da non saper condividere con gli altri ciò che possiede? Queste azioni sono tutte, a livello sottile, delle forme di violenza.
Inoltre, chi può praticare ahimsa, avere il coraggio di rinunciare totalmente a difendersi, se non crede che ci sia un Dio che lo protegge, ovvero, che permette che gli accada solo ciò che è giusto per lui?
La violenza è frutto di ignoranza, quindi è impossibile superarla senza la riflessione sui propri atti, la conoscenza del Sé attraverso lo studio dei testi Sacri, l'esempio di un Maestro, l'esecuzione delle pratiche di purificazione; la limitazione delle proprie necessità materiali porta anche essa ad una riduzione della violenza verso il mondo esterno.

4b) Satya


«Sia il vostro parlare si, si; no, no; il di più
viene dal maligno».
Matteo, V-37


Satya, la seconda qualità morale, va anch'essa intesa in un ambito più vasto della semplice veridicità. Essa implica l'astensione da ogni esagerazione, equivoco, pretesa e simili difetti nel dire o fare cose che non siano strettamente attinenti a ciò che noi conosciamo per vero.
Perché nella pratica dello yoga è necessario attenersi sempre alla verità? Il primo motivo è essenzialmente pratico. Tutti noi abbiamo sperimentato quanta energia vada sprecata nel dire e sostenere una menzogna. Apparentemente può sembrare la soluzione più comoda e semplice per uscire da una situazione spiacevole; ma non tardiamo a renderci conto che per rendere realistica una bugia, spesso ne dobbiamo dire altre, costruendo un castello di menzogne che può proseguire all'infinito. Inoltre, le circostanze della vita sono così imprevedibili che prima o poi l'inganno viene scoperto. Tutto ciò non ha che il risultato di complicarci la vita e rendere la nostra mente turbata ed incerta, allontanandoci da una pratica sincera e proficua.
Il secondo motivo è più sottile. Le situazioni ed i problemi che incontriamo durante la nostra esistenza sono molteplici ed in continuo mutamento. La loro soluzione non è né nei libri né nelle conclusioni fondate sul retto pensiero. L'unica fiaccola in queste tenebre è la buddhi, o intuizione. Nulla come la falsità ostacola questa facoltà, perciò è indispensabile praticare la verità per sviluppare una buddhi non offuscata e pura, che ci conduca con sicurezza attraverso alle difficoltà che si presentano durante l'esistenza. Ecco perché l'adepto dello yoga deve indossare l'armatura di una perfetta veridicità di pensiero, parola ed azione,
tale che nessuna illusione possa infrangerla.
La verità non è solo limitata al discorso. Vi sono quattro abusi nel modo di parlare: abuso e oscenità, falsità, calunnia e mettere in ridicolo ciò che per altri è sacro. Colui che controlla il suo modo di parlare allontana la malizia da se. Quando la mente non è più maliziosa, si è raggiunto un notevole controllo di se, che conduce naturalmente all'amore e alla compassione.
Perciò chi diffonde coscientemente, anche per motivi intrinsecamente buoni, delle dottrine, ideologie politiche, idee o opinioni che sa essere false, agisce contro il concetto di satya.
Per estensione, anche il nostro comportamento soggiace alle regole descritte: colui che per interesse, vergogna o paura si comporta in modo non conforme a ciò che crede, chi dà 'scandalo', (inteso in senso biblico, ovvero commette delle azioni che possano turbare o portare su una cattiva via persone semplici e pure), infrange il precetto di satya. A questo proposito cito il vangelo di Marco 9, 41-42: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare».
Purtroppo viviamo in quella che gli indiani chiamano "Kali yuga", l'era di Kali, dea nera, violenta, terribile seppure necessaria. In quest'epoca, spesso i valori sono ribaltati: infatti oggi uno dei modi più facili per farsi pubblicità e rimanere popolari, è quello di comportarsi in modo scandaloso o immorale; un esempio ne sono gli attori del cinema. Alla loro mancanza partecipano in qualche misura anche coloro che pubblicizzano o si interessano per pura curiosità a questi comportamenti. Chi mantiene una vita pura e retta difficilmente diverrà famoso (anche se vi sono notevoli eccezioni), ma sicuramente avanzerà sulla via della perfezione e dello yoga.
Colui che vuole infrangere il velo di Maya, l'illusione, e conoscere la Realtà, deve uniformarsi ai principi fondamentali che la caratterizzano, i quali sono la Verità e l'Amore.
Nella vita sia interiore che esteriore tutto ciò che contrasta con la legge dell'amore pone fuori dell'armonia ed è fonte di infinite sofferenze; ecco dunque perché è necessaria l'ahimsa; allo stesso modo, la menzogna in qualsiasi forma allontana dall'armonia con la verità e conduce la mente in uno stato di agitazione e confusione che rendono impossibile la percezione della Realtà.

4c) Asteya.

Asteya significa letteralmente 'non rubare', ma pure in questo caso va intesa in senso molto più generale, che non solamente nei termini compresi nel codice penale.
Infatti 'non rubare' non è che l'aspetto maggiormente evidente del problema; ogni persona che ha sviluppato un minimo senso morale si astiene dal furto. Ma vi sono forme più sottili, come l'appropriazione indebita, l'usare oggetti per uno scopo diverso da quello per cui ci sono stati affidati o per un tempo maggiore di quello concessoci.
L'adepto dello yoga non prende nulla che non gli appartenga interamente, non solo come denari o beni, ma anche nelle forme più sottili.
Parimenti godere di credito o privilegi che non gli spettano, oppure superiori ai propri meriti, rientrano nelle azioni proibite da asteya.
Inoltre, anche l'impossessarsi di idee e concetti originali altrui, senza un esplicito consenso, è da considerarsi un furto.
Dobbiamo compiere scrupolosamente il nostro dovere, per quanto a volte appaia noioso o spiacevole, sia che si tratti di lavoro o del nostro impegno sociale; infatti tutti noi percepiamo un compenso per le mansioni che svolgiamo, e se le eseguiamo negligentemente o non nei termini pattuiti frodiamo chi ci retribuisce; parimenti è necessario il nostro impegno sociale, da prestare nei limiti concessi dalle nostre capacità ed attitudini, ma dal quale non ci possiamo in nessun caso esimere, delegando altri al nostro posto: in questo caso 'deruberemmo' i nostri colleghi, o condiscepoli, o la comunità in generale del nostro impegno, che può essere piccolo, ma mai insignificante.
Spesso, solo per aver compiuto il nostro dovere, pretendiamo, o ci concediamo dei compensi, dei privilegi e con un certo autocompiacimento ci sentiamo buoni, giusti...
Solo quando l'individuo riesce in qualche misura a ridurre la tendenza all'appropriazione indebita, all'abuso della fiducia, al cattivo uso nelle sue forme grezze, riuscirà a percepire le forme più sottili di disonestà di cui è intessuta la nostra vita.
La nostra coscienza, alquanto insensibile, non si turba minimamente quando commettiamo queste azioni; ma se riflettiamo per qualche attimo, ci rendiamo conto della frequenza con cui indulgiamo in esse.
Colui che desidera intraprendere il sentiero dello Yoga superiore, dovrà eliminare sistematicamente queste tendenze indesiderabili, fino a rendere la coscienza pura, la mente tranquilla.
Leggendo la Bhagavad Gita, uno dei precetti fondamentali che Sri Krishna impartisce ad Arjuna, consiste nel compiere il proprio dovere, qualunque esso sia, nobile o umile, disinteressatamente e per amore del Signore; l'astenersi dall'attendersi un compenso per il suo svolgimento, né turbarsi per gli effetti che può causare: non abbattersi per i risultati negativi né esaltarsi per quelli positivi.
Non applicheremo asteya nella sua pienezza fino a quando, oltre che ad astenerci naturalmente dal furto, non smetteremo di desiderare ciò che non ci appartiene o non ci spetta.

4d) Brahmacarya

Brahmacarya viene correntemente tradotto come 'continenza', intesa principalmente come astensione sessuale. Ma la tradizione letterale ha un significato più vasto, ovvero 'vita di celibato, studio e autocontrollo'.
Per chi intende perseguire la via dell'astanga yoga, è forse uno dei precetti più ostici da capire e praticare. Inoltre noi cattolici vediamo come i nostri preti, che fanno voto di celibato, siano spesso insofferenti di questa limitazione che può apparire anacronistica ed insensata.
Eppure in tutte le grandi religioni, coloro i quali si dedicavano al servizio di Dio e del prossimo, praticavano questo voto.
L’apparente contraddizione è forse dovuta ai diversi modi di intendere il celibato nelle due religioni: nella cattolica per un generico servizio verso il prossimo, inconciliabile con una famiglia propria; per l'hindù una potente molla verso il progresso spirituale.
Nell'applicazione di questo precetto, come in altri, appare evidente la dicotomia tra i due sistemi: l'uno proteso tutto verso l'esterno, il prossimo, un Dio lontano; l'altra concentrata nel profondo, alla ricerca di Dio profondamente radicato in sé.
Lo studio sistematico della psiche umana, iniziato agli albori del secolo da S. Freud, ha reso evidente a tutti quanto la pulsione sessuale sia uno dei fattori primari e più profondi della nostra natura.
Inoltre nell'uomo , a differenza di quasi tutti i mammiferi superiori, la attività sessuale non è regolata da un ciclo biologico preciso e può essere svolta senza soluzione di continuità.
Questi fattori, uniti al desiderio comune a tutti gli aspetti della vita occidentale contemporanea, di provare il massimo del piacere in tutte le manifestazioni possibili, hanno condotto ad una 'deificazione' del sesso, sradicato dal suo naturale contesto dell'amore e della famiglia.
Ciò non può che condurre a insoddisfazioni e tensioni, perché un piacere effimero come quello sessuale, estrapolato dal suo ambito, è un'azione incompleta e frustrante.
Mi sembra questa una situazione comune a tante altre nella vita che oggi conduciamo: pare che l'uomo provi un terrore o una repulsione per ciò che è naturale. Porterò alcuni esempi: nella farmacologia, si è progressivamente abbandonata la tradizione millenaria di curarsi con i prodotti presenti in natura per i prodotti chimici o di sintesi. Il processo è semplice: si studia la principale sostanza attiva agente, la si sintetizza in laboratorio, si aggiungono pochi eccipienti, si eseguono alcuni test clinici a campione e poi la si introduce sul mercato. Ma non si tiene conto che la natura è estremamente più complessa e più saggia di noi, e che ci fornisce tutti gli elementi necessari alla vita, da quelli maggiormente evidenti (che possono essere analizzati in laboratorio), a quelli presenti a dosi infinitesimali, ma anch'essi indispensabili perché il ciclo biologico si compia alla perfezione. Anche nell'alimentazione si è perseguita una via simile: gli alimenti sono divenuti sempre più raffinati, trattati con sostanze chimiche ed impoveriti delle sostanze indispensabili ad una corretta alimentazione: ciò ha portato a danni incalcolabili alla salute dei paesi industrializzati.
L'eccessiva comodità che sempre maggiormente ricerchiamo ci allontana ogni volta di più dalla terra e dalla natura...
Questa follia, dovuta alla presunzione dell'uomo di poter intervenire nei processi della natura, con l'intento di 'migliorarla', ci ha portati alla situazione attuale, poverissima di valori, assolutamente innaturale, in cui alla ricerca di valori profondi ed immutabili si è sostituita quella del piacere fruibile ed immediato.
Mi rendo conto che non è vero che nel passato tutto andasse per il meglio e che tutto ora sia sbagliato; tuttavia ora il fenomeno ha assunto proporzioni allarmanti; inoltre, mentre fino a qualche decennio fa i gusti e gli interessi delle varie classi sociali erano diversificati e non vertevano solo su aspetti puramente materiali, oggi presentano un preoccupante livellamento verso il basso.
Dopo questa breve analisi, osserviamo il punto di vista dello yoga riguardo all'attività sessuale.
Come già brevemente accennato nell'introduzione, ci sono sfumature diverse nell'intendere il brahmacarya. Illustrerò brevemente quelle di cui sono a conoscenza.
A) Assoluta intransigenza nell'indulgere a qualsiasi attività sessuale e nella ricerca dei piaceri sensuali (Patanjali, nell'interpretazione di J. K. Taimni).
B) Indulgere moderatamente nel piacere dei sensi, quando questi non prendano il sopravvento sulla mente e siano diretti in modo lecito. (B. K. S.Iyengar, A. C. B. Prabhupada).
C) L'uso di tecniche sessuali in modo rituale per attivare e sviluppare l'energia evolutiva assopita nell’uomo, rappresentata da un serpente addormentato, Kundalini, situato nel chakra più basso, Muladhara. (Dhyanabindu Upanisad, Tantrismo).
Ognuno di questi atteggiamenti ha una sua tradizione, ed i punti A) e B), interpretazioni diverse di Patanjali, sono solo apparentemente contrastanti.
Infatti, se per intraprendere lo yoga superiore è indispensabile evitare piaceri sensuali, non è necessario astenervisi per tutta la vita. Nella tradizione della casta sacerdotale hindù, vi erano quattro fasi ben distinte nella vita religiosa. Nel primo stadio, l'aspirante brahmino è affidato ad un Guru, ed è un brachmachari, votato allo studio e all'astinenza (jnana yoga); raggiunta la età adulta, si sposa, diventa un grhastha, ha famiglia e segue la strada dell'uomo giusto, che esegue il suo dovere disinteressatamente (karma-yoga); quando ha visto il figlio di suo figlio, si allontana dalla società da solo o con la consorte (vanapasthra-asrama) e si dedica alle pratiche di devozione (Bhakti-yoga); nella vecchiaia si distacca da tutto ciò che è materiale (sannyasa-asrama) e medita nella solitudine e nel silenzio (raja yoga).
Come si vede, nell'arco di una singola esistenza sono rappresentati tutti gli aspetti dello yoga. In quest'ottica è accettabile una vita normale, dalla quale però devono essere banditi tutti gli eccessi, i quali turbano la mente e non permettono un avanzamento spirituale.
Perciò la pratica del brahmacarya può essere intrapresa in qualsiasi momento della vita, dalla giovinezza (nel caso dei monaci), sia nella maturità o addirittura nella vecchiaia per le persone normali.
Ma perché è necessaria la pratica dell'astinenza nell'esercizio dello yoga superiore?
La qualità essenziale per intraprendere la meditazione è la tranquillità della mente. Ma come la si può mantenere stabilmente se si è in preda a desideri sensuali? Inoltre l'attività sessuale comporta una perdita di energia che lo yogi incanala in altre direzioni.
Scrive Taimni: "Numerosi scrittori occidentali hanno cercato di risolvere il problema suggerendo un'interpretazione più libera del brahmacarya, e supponendo che esso non implichi l'astinenza completa ma un esercizio sessuale moderato e regolato, entro il vincolo legittimo del matrimonio (...) Per l'adepto serio ed avanzato, questo desiderio di conciliare le gioie della vita mondana con la pace e la conoscenza trascendente della vita superiore appare piuttosto patetico, e mostra l'assenza di un senso reale dei valori circa la realtà della vita yoga, e pertanto scarsa attitudine a condurre tale vita. Chi giunga a porre sullo stesso piano, o anche a considerare confrontabili, le gioie sessuali con la pace e con la beatitudine della vita superiore che lo yogi persegue, deve ancora sviluppare quella forte intuizione che ci dice di dover inequivocabilmente sacrificare una pura ombra alla cosa reale, una sensazione passeggera al massimo dono della vita".
Vi sono anche altri piaceri che dovrebbero essere evitati: l’uso di profumi, di pellicce, il compiacersi di una cucina eccessivamente raffinata... Poiché viviamo in un mondo fisico, siamo continuamente immersi nelle sensazioni che sollecitano gli organi di senso: quando mangiamo un piatto gustoso, non possiamo evitare la sensazione piacevole che il cibo produce entrando in contatto con le papille gustative; il difetto non sta in cosa proviamo, che è del tutto naturale, ma nel desiderare che si ripetano le esperienze che comportano sensazioni piacevoli. Ed è proprio il desiderio (ama) che deve essere sradicato. La mente dello yogi non si attacca agli oggetti che danno piacere né si allontana da quelli che danno dolore; il contatto con gli oggetti provoca una sensazione, ma in essa l'azione si esaurisce.
Pertanto, a differenza della concezione cristiana, il sesso e la sensualità in generale, non è collegato al senso del 'peccato', bensì è visto come una pratica che allontana la mente dalla pace e dalla assenza di tensione necessaria per progredire nei livelli superiori dello yoga.
La terza via, quella tantrica, parte dal presupposto che l'energia sessuale sia estremamente potente, e che incanalata nella giusta direzione, per mezzo di pratiche appropriate, sia in grado di risvegliare Kundalini, l'energia evolutiva dell'uomo, simboleggiata da un serpente dormente, attorcigliato alla base della colonna vertebrale. I chakra, nelle persone comuni, sono visualizzati come fiori di loto con i petali rivolti verso il basso. Quando la Kundalini viene risvegliata, risalendo il canale energetico centrale, chiamato Sushumna, trapassa tutti i chakra, da Mulhadara (alla base della colonna vertebrale), ad Ajna, posto nel centro della fronte, permettendo all'energia necessaria all'ascesa spirituale di risalire, per poi traboccare nel momento della piena realizzazione attraverso Sahasrara, il punto di contatto tra il corpo fisico e quello sottile, posto al vertice del capo. Con il progredire della consapevolezza, i petali dei chakra si rivolgono verso l'alto.
I seguaci del Tantra, per risvegliare questa energia, oltre le usuali tecniche dello yoga, fanno uso anche di pratiche erotiche.
Sebbene queste pratiche non siano riconosciute dalle tradizioni classiche dello yoga, non vanno intese come un indulgere nei piaceri fisici o desiderio di procreazione, ma come azioni rituali.
Infatti per gli yogi l'emissione di sperma è intesa come perdita di energia vitale e perciò da evitare assolutamente. Pertanto l'unione di un adepto con la sua compagna ha una funzione mistica, simboleggiando l'eterno amplesso di Siva con Shakti, la potenza, il suo aspetto femminile.
E' perciò evidente l'autocontrollo e la perfetta padronanza di sé richieste da queste pratiche, la spersonalizzazione dell'atto stesso necessaria per un effettivo progresso verso la realizzazione che pochi di noi possono raggiungere, specialmente in ambito occidentale, dove le tradizioni in merito sono radicalmente diverse.
Perciò la via del Tantra non è assolutamente più permissiva di quella dello yoga classica, e va seguita solamente se si ha una naturale predisposizione per essa, e non per trovare una parziale gratificazione dei sensi.


4e) Aparigraha.


«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mie-
tono, né ammassano nei granai: eppure il Padre vostro
celeste li nutre»
. Matteo, VI-26

«Osservate come crescono i gigli del campo: non lavo-
rano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Sa-
lomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di
loro»
. Matteo, VI-28

«Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuo-
re»
. Matteo, VI-21


Aparigraha significa 'assenza di avidità', o forse meglio ancora, 'non possessività'.
L'istinto al possesso è forse uno dei più radicati e profondi dell'animo umano. Inoltre, l'avvento della civiltà ha ulteriormente influenzato questa inclinazione 'naturale' dell'uomo, facendone la base del suo mantenimento e sviluppo, e così si è gradualmente passati da una società fondata sull'essere ad una incentrata sull'avere, in cui ognuno è valutato per ciò che possiede, e non per ciò che realmente è. (Vedi E. Fromm, Essere e Avere, introduzione).
Ognuno di noi tende ad accumulare sempre di più, oltre al necessario, oltre ogni ragionevole concetto di benessere, solo per il desiderio infantile di apparire 'migliore', per impressionare il prossimo.
Analizzando la vita di ognuno di noi apparirà evidente quanto del nostro tempo e quale parte delle nostre limitate energie vengono sprecate per accumulare oggetti di cui non abbiamo assolutamente bisogno per vivere.
Inoltre, più cose possediamo e più dobbiamo investire tempo ed energie per serbarle e difenderle, e proporzionalmente aumenteranno dolori ed ansietà con l'accrescersi dei beni. Bisogna inoltre considerare il timore e l'angoscia di perdere quanto possediamo e il dolore che proviamo quando di tanto in tanto subiamo qualche perdita, ed il rimpianto di dover abbandonare tutto quando lasciamo questo corpo.
E' assolutamente impensabile di tentare di risolvere i problemi più profondi della vita, di intraprendere un cammino che conduca alla liberazione e contemporaneamente sprecare preziose energie nell'accumulare beni. La mente attaccata al possesso è agitata, inquieta e non può dedicarsi alla riflessione ed introspezione che lo yoga richiede.
Il limite di quanto è indispensabile e quanto superfluo per il mantenimento della vita è relativo, e i grandi rishi ci insegnano fino a che punto estremo può arrivare la rinuncia di beni terreni. Inoltre bisogna considerare che il senso di attaccamento è indipendente da quanto realmente possediamo. Una persona può essere circondata dal lusso senza esserne toccata, e rinunciare ad esso senza rimpianti quando necessario; al contrario è possibile che un penitente nel deserto sia profondamente attaccato ai suoi miseri possessi.
In un certo senso, il problema è analogo a brahmacarya: l'attenzione non va posta sul piacere in sé, ma sul desiderio di ripetere l'esperienza che l'ha provocato; in aparigraha il problema non verte sull'uso strumentale che ne possiamo fare, ma sul nostro attaccamento ad essi.
Perciò chi intende intraprendere seriamente la strada dello yoga, dovrebbe rinunciare ad ammassare beni, ridurre al minimo le proprie esigenze, eliminare tutte le attività non necessarie che disperdono inutilmente energie e che sono fonte di turbamento per la mente. Dovrebbe inoltre essere pronto ad abbandonare in qualsiasi momento, senza rimpianti e lietamente ciò che possiede.
Inoltre, per la persona religiosa, l’ammassare beni è un insulto a Dio: infatti sottintende una mancanza di fede nell'Essere Supremo ed in sé stessi per provvedere al proprio futuro. Il sadaka invece deve sviluppare la convinzione che gli giungerà quanto necessario al momento giusto. Ciò non deve trarre in inganno: non bisogna diventare passivi, attendendo che il necessario per il nostro sostentamento ci venga dal cielo: semplicemente, bisogna compiere il proprio dovere disinteressatamente. Si legge nella Bhagavad Gita: "Questo è il segno dell'azione satvica: l'uomo agisce senza attaccamento. Non ha più il senso dell'io nell'azione, ma compie il proprio dovere con ferma perseveranza ed entusiasmo, e solo per senso del dovere, senza preoccuparsi affatto del successo o dell'insuccesso". B. G., XVIII, 26.
Aparigraha non è forse che un altro aspetto di asteya, il quale significa, prima ancore di impossessarsi, di non desiderare ciò che appartiene ad altri; aparigraha agisce su un piano leggermente superiore, perché dice di non desiderare, indipendentemente dall'oggetto e dal suo eventuale possessore. Perciò è impossibile che chi segue il precetto di aparigraha rubi, si appropri indebitamente di qualcosa o che solamente ne formuli il pensiero.

 

4f) Maha-vrata.


"Questi (i cinque voti di yama), non condizionati dalla classe,
dal luogo, dal tempo o dall'occasione ed estesi a tutti gli
stadi, costituiscono il grande voto"
. Patanjali, II,31


Dopo aver elencato in II,30 le astinenze, in questo sutra alquanto importante Patanjali spiega con grande chiarezza come queste debbano essere applicate nel maha-vrata, il grande voto.
Spesso ci si chiede se in casi eccezionali questi precetti possano venire disattesi. Per esempio, un vostro amico, che sapete innocente, verrà condannato, e potrete salvarlo solo mentendo (occasione); oppure siete chiamato a combattere contro dei nemici che attaccano il vostro paese (tempo);dovete andate in Antartide, dove l'unica fonte di alimentazione è data dall'uccisione di animali (luogo); un filantropo ammassa grandi sostanze per poi darle parzialmente a chi è bisognoso. Può quindi venir meno ad aparigraha? (classe).
Ognuno di noi è posto di fronte ogni giorno a numerose di queste scelte, e spesso si chiede se può derogare per motivi apparentemente giusti dall'applicare alla lettera yama. Patanjali è estremamente chiaro: mai e per nessun motivo si può venir meno alla loro osservanza.
Ciò ha delle implicazioni molto serie, in quanto a volte mantenere integralmente questi voti, può implicare rischi molto gravi, fino alla perdita della vita stessa. Per poter seguire questo ideale è indispensabile una grande forza morale, sostenuta dalla fede che nulla di male può accadere a chi persegue il giusto. Questo non vuol assolutamente dire che non si debba soffrire: la sofferenza è dovuta al karma accumulato nelle vite precedenti, ed è perciò necessario sopportare le esperienze spiacevoli. Le difficoltà hanno lo scopo di metterci alla prova, proporzionalmente alle nostre possibilità, e se dimostriamo la nostra ferma determinazione a compiere il giusto ad ogni costo, i problemi si risolveranno nel modo più inaspettato.
A questo proposito, scrive Taimni: «L'adepto potrà trovarsi in gravissime difficoltà, potrà pagare molto cara l'osservanza dei voti -persino pagarla con la pena estrema, la morte- ma non potrà mai, in nessuna circostanza, rompere uno dei voti. Anche se per osservare i voti dovrà sacrificare la vita, egli dovrà superare lietamente la prova nella ferma convinzione che l'immenso influsso del potere spirituale che si verificherà necessariamente in tali condizioni, controbilancerà di gran lunga la perdita di una sola esistenza. (...) Inoltre l'adepto dovrebbe sapere che in un universo governato dalla legge e fondato sulla giustizia, nessun vero male potrà capitare a chi cerchi di compiere il giusto». [1]
Se da un certo punto di vista questa concezione senza compromessi può indurre l'adepto in serie difficoltà, d’altra parte facilita moltissimo le scelte da compiere, non lasciando alcuno spazio ad ambiguità. L'universalità del voto non lascia alla mente nessuna scappatoia, e la linea di condotta in numerosissimi casi sarà completamente chiara, e potrà seguire il retto sentiero, avendo la certezza che nessun altro gli si apre.
Si deve osservare che sebbene si insista sulla necessità di compiere il giusto, quale sia questo giusto sta nell'interpretazione del sadaka, e la sua sola sensibilità, e non il giudizio altrui deve guidarlo. Se compie l'ingiusto con retta intenzione, la sofferenza che ne seguirà servirà naturalmente da insegnamento; ma il desiderio di compiere ciò che è giusto ad ogni costo rischiarerà progressivamente la sua facoltà di discernimento, conducendolo allo stadio in cui sceglierà il giusto con sicurezza, senza più sbagliare.
Ecco perciò un ulteriore motivo per cui una ferrea dirittura morale è indispensabile per il serio praticante dello yoga.

 

Nota 1
Se si osserva il mondo in modo superficiale, questa affermazione di Taimni può sembrare eccessivamente ottimistica, forse azzardata. I violenti, i falsi e gli ipocriti apparentemente prosperano, mentre gli onesti ed i deboli sono oppressi e soffrono.
Ma la prova dell'esistenza di una armonia e giustizia ci viene fornita dalla scienza moderna. I progressi della fisica teorica contemporanea sono stupefacenti, e siamo ad un passo da una scoperta che ci fornirà la comprensione profonda dei meccanismi che reggono l'universo fisico.
Sono quattro le forze fondamentali che regolano la natura. Due di esse sono note da secoli perché i loro effetti sono facilmente percepibili: la forza di gravità e la forza elettromagnetica (che spiega le proprietà della luce ed il comportamento chimico degli atomi). Le altre due - scoperte della fisica contemporanea - sono l'interazione forte, che tiene insieme le particelle del nucleo atomico e l'interazione debole, responsabile del decadimento radioattivo della materia. Da tempo i fisici sospettavano l'esistenza di un principio generale che unifichi queste quattro forze. Attorno a questa idea Einstein lavorò inutilmente per trent’anni, finché nel 1967 i futuri premi nobel A.Salam e S.Weinberg formularono una teoria matematica che ipotizzava la fondamentale unità tra la forza elettromagnetica e l'interazione debole: queste due forze sarebbero in realtà aspetti diversi di una grande forza, chiamata elettrodebole. La dimostrazione dell'esattezza di questa teoria si ebbe con l'esperimento di C. Rubbia nel 1983, al Cern di Ginevra. Frattanto venne formulata un'altra teoria matematica che permetteva di affermare che la forza elettrodebole e l'interazione forte sono a loro volta aspetti di un'unica forza. E pertanto lecito pensare che esista una legge fisico-matematica che inglobi in una sola grande teoria unificata anche la forza di gravità. Ed i fisici affermano di essere sull'orlo della scoperta che ci permetterà di conoscere la legge che dia ragione della struttura e dell'armonia dell'universo.
Ma se è ormai scontato che l'universo fisico soggiace ad un'unica legge - e neppure una persona completamente scettica oggi lo negherebbe - come si può pensare che le nostre azioni, i nostri stessi pensieri, il mondo spirituale, che sono manifestazioni di energie più sottili, non facilmente misurabili da strumenti fisici, perché agenti su piani diversi, ma non per questo meno reali o sensibili, possano essere governati dal caos?
L'apparente contraddizione è dovuta allo spirito scientifico occidentale, che trae le sue origini dal pensiero filosofico greco, il quale ha sempre diviso nettamente ciò che è naturale da ciò che è spirituale o manifestazione soprannaturale.
Ma la linea che divide i due settori della conoscenza, quella scientifica da quella filosofico-religiosa è molto elastica, e con il progredire del nostro bagaglio scientifico, quello che secoli fa appariva sotto forma di prodigio, e perciò attribuibile al capriccio di una divinità, oggi e spiegabile naturalmente. Perciò portando al limite questo ragionamento, quando la nostra conoscenza sarà totale, tutto sarà perfettamente spiegabile, senza l'intervento di fattori esterni. E questo non perché non esista un Dio, ma perché la sua creazione e talmente perfetta che si regola in ogni sua manifestazione attraverso l'applicazione di un'unica, armonica legge che oggi non conosciamo, che sicuramente non conosceremo mai con strumenti di analisi scientifica tradizionale, ma che certamente esiste. I mezzi per comprenderla ci sono forniti da una scienza antica quanto estremamente evoluta: lo yoga.
Questa affermazione può lasciare attoniti, poiché siamo sempre stati abituati a vedere un dio che interveniva continuamente nel creato, spesso per aiutare un suo beniamino a discapito di altri esseri o in contrasto con le leggi naturali. Ma se consideriamo questi fatti alla luce della logica, ciò sarebbe altamente ingiusto. Non ama forse Dio tutta la creazione di un medesimo, infinito amore? Perciò la massima perfezione si manifesta nell'aver calibrato tutti i fattori agenti nell'attimo della creazione dell'Universo, lasciando che poi evolvessero nel disegno stabilito. E poiché questo disegno è estremamente generale, valido per le particelle subatomiche, le galassie e le manifestazioni spirituali, evolve in tempi per noi inimmaginabili, e su una scala praticamente infinita, perciò è estremamente arduo per noi comprendere come questo piano si sviluppi e quale sia il fine. Ma ci resta la certezza che ogni evento si collochi in una posizione ben definita, obbedendo ad una armonica ed immutabile legge, di cui noi possiamo intravedere un pallido riflesso nei nostri modelli fisico-matematici.
Questa concezione dell'Universo è in perfetta sintonia con la legge del karma: "Essendo il karma una legge naturale e operando le leggi naturali con precisione matematica, potremo in certa misura predire i risultati karmici delle nostre azioni e predirne le conseguenze. Il risultato karmico di un'azione, o `frutto', come viene generalmente denominato, sia in rapporto con la azione come una copia fotografica sia in rapporto con la negativa, sebbene il comporsi di effetti diversi possa rendere difficile risalire con esattezza alle rispettive cause di ciascun effetto". Taimni, la scienza dello yoga.

Nyama

 

5d) Tapas

Questo elemento, assieme ai due seguenti, compone il kriya yoga, come già accennato nel paragrafo 5a. Tapas non ha un significato univoco nella nostra lingua, ma viene abitualmente tradotto con ardore, austerità, purificazione, autodisciplina. Probabilmente deriva da un termine dal processo che consiste nel portare ad alta temperatura il minerale grezzo fino ad ottenere l'oro puro. Quindi, anche simbolicamente, ha il significato di purificare attraverso il fuoco dell'austerità e della disciplina. In un certo senso, la tecnica attraverso la quale si costruisce il carattere, ponendo sotto controllo i veicoli inferiore, è una pratica di tapa, ma in senso ortodosso, il tapa viene impiegato in una serie di esercizi specifici per controllare il corpo fisico e la forza di volontà. I tapas possono essere divisi in tre tipi: può riferirsi al corpo (kayika), al discorso (vachika) o alla mente (manasika). La continenza (brachmacharya) e la non-violenza (ahimsa), sono tapas del corpo. Non calunniare, dire la verità senza badare alle conseguenze, non parlare male del prossimo, sono tapas del parlare. Sviluppare un modo di pensare che mantiene il soggetto equilibrato e sereno nella gioia e nel dolore e che gli permetta di mantenere il controllo di sé stesso sono i tapas del pensiero.
Alcuni, desiderando con fervore esercitare i tapas, formulano i voti più impensabili, per esempio di rimanere per anni su una sola gamba, senza badare che l'altra si dissecchi, o procurano al corpo sofferenze continue ed insensate. Queste pratiche sono considerate 'demoniache' dalle scuole yoga più illuminate, e considerate con la massima severità.
Normalmente la pratica dei tapas inizia con esercizi molto semplici, che in fasi successive diventano più ardui, i quali mettono alla prova la forza di volontà dell'adepto, con lo scopo di produrre una graduale separazione della coscienza dai veicoli inferiori, causando un'attenuazione di asmita, la coscienza che dice: «io sono quello». Solamente raggiungendo (almeno parzialmente) questo potere di scindere la coscienza dai veicoli, ovvero di non identificarsi col corpo, il sadaka potrà controllare e purificare i veicoli stessi, permettendogli di impiegarli per le finalità dello yoga.
Con le tapas lo yogi sviluppa la forza del corpo, del carattere e della mente, acquista coraggio, saggezza, integrità, onestà e semplicità.

5e) Svadhyaya.

«Sva» significa il proprio essere e «adhyaya» studio o educazione. Perciò svadhyaya significa educazione dell'io. Talvolta viene impiegato nell'accezione restrittiva di studio dei libri sacri. Questa però non è che la prima parte del lavoro da compiere: come in ogni scienza, anche nello yoga è indispensabile conoscere i testi fondamentali, per acquisire la conoscenza dei principi teorici e delle pratiche che l'ideale yoga comporta.
Questo studio teorico non porterà molto avanti sulla strada dell'auto-realizzazione, ma riveste una grande importanza per l'adepto. Spesso chi intraprende la strada dello yoga ha una preparazione intellettuale molto vaga e confusa e quando si trova a dover affrontare gli innumerevoli problemi che questa scelta comporta, spesso si scoraggia, decide di abbandonare la via intrapresa o cade in balia di persone senza scrupoli che per attirare gente presso di sé promettono ogni specie di risultati, spesso assolutamente fantastici, che a lungo termine otterranno l'effetto di allontanare chi si era accostato alla disciplina o addirittura di renderlo scettico e incredulo.
Sri Vinoba Bhave afferma che «svadhyaya è lo studio di un soggetto che è la base o la radice di tutti gli altri soggetti o azioni, sul quale tutti gli altri si basano, ma che a sua volta non si basa su nulla».
Sebbene lo studio delle sacre scritture e dei testi specifici sullo yoga siano indispensabili, non sono che il primo passo. Nello stadio successivo, il sadaka comincia a riflettere ed a meditare sui problemi più profondi studiati sui libri. Questa riflessione costante prepara la mente a ricevere la conoscenza vera e propria, attraverso al soffio dell'intuizione. Quanto più chiara sarà la percezione dei problemi, tanto più vivo sarà il desiderio di risolverli. Gradualmente la riflessione si muterà nella meditazione; la mente verrà sempre più assorbita dall'oggetto della ricerca, il quale potrà essere di varia natura: una verità astratta, un oggetto di devozione con il quale l'allievo intende entrare il comunione... Di grande aiuto in questa ricerca profonda è la recitazione dei mantra, che hanno la caratteristica di ottenere una fusione parziale tra la coscienza inferiore e quella superiore. Perciò questo cammino, che all'inizio è puramente intellettuale, prosegue attraverso alle fasi della concentrazione, della meditazione, dei tapas, della devozione, fino a quando l'individuo abbandona ogni aiuto esterno, come i libri, i discorsi altrui e troverà nel profondo della propria mente quanto sarà necessario alla sua ricerca.
Praticando con devozione questo precetto, l'adepto è simile a colui che scoperto l'angusto accesso di una caverna vi si inoltra, e con l'aumentare della profondità vede espandersi a dismisura le dimensioni della grotta, fino a divenire immensa: così chi penetra nelle profondità del proprio sé con un intento puro, con la perseveranza e le tecniche adatte, entra in contatto con l'Atman, la coscienza indivisa ed immutabile.

5f) Isvara-pranidhana

«Il raggiungimento del samadhi deriva dall'abbandono a Dio».
Patanjali, Sadhana Pada, II-45


«Pratica la presenza di Dio col fissare in Me la tua mente.
insegna al tuo intelletto a ragionare in favore mio tanto col
rigore della logica quanto nell'onda dell'impeto d'amore.
Allora vivrai in Me e Io in te. Non devi avere dubbi su que-
sta unione fra Me e te per mezzo dell'amore».

Bhagavad Gita, XII-8


«Sia fatta non la mia, ma la Tua volontà».
Matteo, XXVI-36


Isvara Pranidhana viene abitualmente tradotto con rassegnazione a Dio. Quando la persona comune pratica questo precetto, intende principalmente assoggettarsi lietamente alla volontà suprema di Dio, sebbene l'esperienza che ha prodotto questo atteggiamento possa essere alquanto spiacevole. Questo atteggiamento, superiore a quello di chi impreca contro le inevitabili avversità che si susseguono nel corso dell'esistenza, è tuttavia una rassegnazione passiva, e non l'armonizzare il proprio essere con la volontà divina.
Tale modo di pensare non porta grandi progressi nel cammino dell'avanzamento spirituale. Ma poiché l'Isvara pranidhana è un metodo per giungere al samadhi, come affermato nel sutra II-45, porterà una profonda trasformazione entro il sadaka, molto più profonda della pura accettazione di ogni prova o sofferenza a cui possa essere sottoposto nel corso della propria vita.
Secondo la filosofia che sta alla base dello yoga, la realtà entro di noi è libera dall'illusione fondamentale che è fonte delle miserie della nostra esistenza. il purusha, o coscienza individuale, è una manifestazione di questa realtà. Come avviene che il purusha si assoggetti a questa grande illusione? attraverso l'imposizione dell'io individuale e alla identificazione del purusha con i suoi veicoli e con l'ambiente in cui la coscienza è immersa. Fintanto che persiste il velo dell'asmita, ovvero della singolarità dell'io e dell'egoità, l'individuo resterà prigioniero dell'illusione e del dolore. Solamente rimuovendo questo schermo che vela la coscienza, si raggiungerà la liberazione. Questa è l'idea fondamentale che sottende alla filosofia yoga, la quale mira, con vari sistemi, sia diretti che indiretti ad infrangere questa illusione fondamentale. L'Isvara pranidhana è appunto uno di questi metodi, teso ad infrangere l'asmita tramite la fusione della coscienza individuale con la volontà divina, distruggendo così la radice dei klesa, fonte di ogni dolore. «Sacrifica a Me tutte le tue attività e riposa in Me la tua mente solo assorta in Me, senza serbare alcuna idea di proprietà né speranza di profitto personale tuo: diverrai libero, emancipato per sempre; combatti guarito da questa febbre mentale!». Bhagavad Gita, III-30.
Pertanto questo esercizio inizia con l'asserzione «sia fatta la Tua, non la mia volontà», ma questo è solo l'inizio. Procede con la progressiva spoliazione del falso io, fino a raggiungere la coscienza di Isvara, la cui volontà opera nel mondo manifesto. Vi sono vari metodi per raggiungere ciò.
L'adepto può ricercare di diventare strumento cosciente della volontà divina compiendo sempre ciò che gli sembra giusto e agendo con retta coscienza. Questo è inevitabilmente un processo lungo e graduale, che richiede una ferma convinzione poiché è un'agire alla cieca, non conoscendo i fini di Dio, né questa coscienza è indispensabile, almeno un questa fase, poiché una personalità capricciosa non controllata non vi si assoggetterebbe neppure se essa fosse palese. Ma con l'andare del tempo, mantenendosi nella ferrea ricerca di ciò che è giusto e conformando la propria condotta su questo ideale, anche la buddhi (la facoltà di discriminare), gradualmente si fa più acuta e sicura, fino a uniformarsi alla volontà di Isvara. Tale è il karma-yoga.
Per l'adepto altamente emotivo la via sarà diversa. Egli non porrà l'accento sulla fusione della volontà individuale con quella divina, ma sull'unione con l'amato attraverso l'amore. Ma poiché l'amore si esprime con l'abnegazione e alla subordinazione all'amato, anche attraverso a questa forma devozionale (bakti-yoga) si perviene all'annullamento del falso io (asmita). In questo caso è l'amore che determina la distruzione dell'egoismo e conduce al samadhi, come annunciato nel sutra II-45.
Questa è la strada percorsa dal «Movimento per la coscienza di Krishna», più nota col nome di«Hare Krishna», fondata verso la metà degli anni '60 da Baktivedanta swami Prabhupada negli Stati Uniti, da cui si diffuse poi in tutto l'Occidente. La loro attività si fonda principalmente sulla devozione a Dio, la recita e il canto dei Suoi santi nomi, la lettura della Bhagavad Gita e dello Srimad Bhagavatam, il servizio verso il prossimo e la diffusione della loro dottrina.
Il fatto che l'Isvara Pranidhana conduca al samadhi è una rivelazione sorprendente, e Patanjali indica nel sutra I-23 e successivi che questa è una via alternativa e indipendente all'astanga yoga.
Come già accennato nel presente paragrafo, il purusha è offuscato nel comprendere la sua natura divina dalle citta-vritti, ovvero le modificazioni della mente, mantenute costantemente attive dalla coscienza dell' 'io', che fa sorgere continui desideri e mantiene la mente in continua espansione e agitazione. Abbandonandosi a Dio, attraverso la volontà o l'amore, vi è un progressivo affievolirsi dell'asmita, che porta al citta-vritti-nirodha, ovvero alla condizione di assoluta quiete mentale, in quanto l'azione non è più determinata dall'interesse personale, ma dalla volontà di Isvara che si manifesta attraverso alla coscienza individuale; perciò non si è più legati ai frutti dell'azione, che diventano del tutto irrilevanti e indifferenti. E la quiete mentale che ne deriva è appunto il manifestarsi del samadhi. E questa è certamente una via dolcissima per raggiungerlo.

Om, shanti,shanti, shanti.

Agazzano, 01.11.91
(Piacenza, 30.01.99)

Nota 2
Vorrei dare una breve precisazione sui termini «mantra» e «preghiera». Traggo la definizione di mantra dal glossario de "Le Upanisad dello Yoga" di Jean Varenne: «formula rituale, versetto. Breve passo di un testo (al massimo una strofa di quattro versi, più spesso una breve frase) impiegato nella liturgia. Il più famoso dei mantra vedici è la Gayatri. La Gayatri per antonomasia è una breve invocazione rivolta al Dio Incitatore (il Sole) perché stimoli l'intelligenza». Va aggiunto che il mantra viene spesso recitato a lungo, abbinato a particolari tecniche di respirazione. La preghiera è da sempre il tramite tra l'individuo e la divinità, e può avere due obiettivi principali: a) chiedere «qualcosa», b) semplicemente entrare in sintonia con Dio e adorarLo. Le forme di preghiera inerenti il punto a) possono essere così divise schematicamente in ragione dell'oggetto per cui si impetra: 1) per sé stessi; 2) per i propri cari; 3) per i nemici; 4) per l'umanità intera; 5) per tutti gli esseri senzienti. Sebbene il valore etico sia crescente nei cinque aspetti elencati, ritengo che siano assolutamente inadeguati nel colloquio con la divinità per l'adepto dello yoga, indipendentemente dal merito della richiesta, sia essa materiale o spirituale, buona o cattiva, lecita o illecita, egoista o altruista. Il motivo è alquanto semplice: chi prega per ottenere qualcosa, ritiene che Dio non sia in grado di fornirci quanto ci è necessario, o peggio ancora, che pur sapendolo, si aspetti di essere blandito con preghiere o sacrifici. Questa concezione di Dio è alquanto avvilente, poiché Lo pone ad un livello imperfetto e contrasta con il precetto di Isvara pranidhana, ovvero il completo abbandono alla volontà di Dio.
Inoltre, con la nostra conoscenza assolutamente imperfetta e parziale della realtà, come possiamo stabilire ciò che è giusto per noi o per gli altri? Chi prega per raggiungere uno scopo, è cieco e manca di fede e carità, poiché l'ottenimento di ciò che ritiene giusto per sé o per il suo prossimo può nuocere a qualche essere senziente, perché gli eventi che si verificano non sono isolati, ma strettamente concatenati in rapporti di causa-effetto. Cerco di chiarire con un esempio banale: ritengo che la stampa di libri sia un'ottima cosa. Ma per fabbricare la carta ogni giorno vengono abbattuti ettari di foresta, che probabilmente non verranno reintegrati. Ecco dunque che un evento di per sé giusto (la stampa di libri) ha un effetto negativo (l'abbattimento delle foreste).
Così spesso noi preghiamo per ottenere oggetti, o grazie, senza capire chiaramente cosa stiamo chiedendo. E se non otteniamo ciò che non abbiamo chiesto, non è perché Dio sia sordo o malevolo, ma perché nella Sua misericordia ci evita di portare le conseguenze della nostra cecità e orgogliosa ignoranza. Tutto quanto ci è veramente necessario ci viene elargito con generosità: la Terra non sarebbe forse in grado di mantenerci con le sue risorse messe a frutto dalla nostra intelligenza? Se questo non avviene, non è per difetto di Dio, ma solo dovuto alla nostra ignoranza, orgoglio e malvagità.
Inoltre, come postulato nella nota ¹, l'Universo evolve seguendo una legge generale ed armonica: se la divinità dovesse intervenire ad ogni nostro capriccio, dovrebbe continuamente modificare il corso naturale degli eventi, e poiché vi è un rapporto strettissimo tra causa ed effetto, ed ogni evento varia in modo infinitesimale eppure sensibile la storia del cosmo, un piccolo intervento di una forza esterna all'universo stesso ne stravolgerebbe in modo irreversibile e definitivo il destino; interventi frequenti e numerosi come quelli che sono stati richiesti nel corso di innumerevoli vite provocherebbero un caos inimmaginabile, che neppure la divinità pasticciona che l'avesse provocato riuscirebbe più a rimediare, se non ponendo fine al tempo e ricominciando tutto da capo...
Inoltre noi agiamo in armonia con la legge del karma, e quanto succede a tutti gli esseri che abitano questo pianeta, avviene a causa delle azioni commesse nel corso delle nostre vite passate; perciò le sofferenze a cui spesso siamo sottoposti, non sono solo delle disgrazie, ma se affrontate correttamente dei sistemi per scontare dei nostri errori passati e progredire spiritualmente. Inoltre, secondo gli insegnamenti della Bhagavad Gita, tutte le azioni interessate creano karma: ciò è valido anche per la preghiera, se atta ad ottenere qualcosa. Le azioni virtuose producono un karma «buono», per cui chi le compie potrà rinascere in una situazione migliore di quella attuale, ma per chi pratica lo yoga e tende a raggiungere la liberazione, lo scopo ultimo, se pure esiste, è quello di spezzare le catene della rinascite, per cui l'unica azione possibile è quella disinteressata, che non produce karma.
Perciò, l'unica forma di preghiera possibile è quella di lode a Dio ed alla perfezione della creazione, che se praticata con purezza e devozione eleva i nostri veicoli più sottili, o «spirito», come diremmo noi cristiani, a livelli sempre più alti, fino ad entrare in contatto con Dio, che non alberga in qualche cielo remoto, ma nella profondità del nostro essere.

Considerazione su Yama e Nyama


Postfazione e bibliografia

Frammenti su yama e nyama tratti dai testi classici dello yoga.

 

Yoga sutra di Patanjali (tratto da "la scienza dello yoga", I.K. Taimni, ed. Ubaldini)

Libro dell'enstasi - Samadhi Pada

23) [L'enstasi] oppure [si ottiene] grazie alla dedizione al Signore (Isvara-pranidhana).


Libro del metodo . Sadhana Pada

1) Lo yoga pratico (kriya yoga) è ascesi (tapa), studio delle scritture (svadhyaya), dedizione totale al Signore (Isvara-pranidhana).
2) Esso ha per scopo la realizzazione dell'enstasi e l'attenuazione delle dolorose afflizioni originali.
29) Gli otto livelli dello yoga sono: precetti negativi (yama), precetti positivi (niyama), posture (asana), controllo del respiro (pranayama), raccoglimento (pratyahara), concentrazione (dharana), meditazione (dhyana) ed enstasi (samadhi).
30) i precetti negativi sono: inoffensività (ahimsa), veracità (satya), onestà (asteya), castità (brahmacharya) e assenza di attaccamento (aparigraha).
31)Quando non ammettono limitazione di specie, luogo tempo o circostanze, e sussistono tutti gli stadi [mentali], costituiscono il grande voto (maha-vrata).
32) I precetti positivi sono: purezza (sauca), appagamento (samtosa), ascesi (tapa), studio delle sacre scritture (svadhyaya), dedizione totale al Signore (Isvara-pranidhana).
33) Per scacciare ogni tentazione se ne evochi l'antidoto.
34) L'antidoto consiste nel considerare che le emozioni malvagie come la violenza, compiute, fatte compiere o approvate, causate da brama, ira o ottundimento, di intensità lieve, media o intensa, portano perennemente come frutti dolore e ignoranza.
35) In presenza di colui che è saldamente fondato nell'inoffensività (ahimsa) cessa ogni ostilità.
36) Colui che è saldamente fondato nella veracità (satya) governa il frutto dei riti.
37) Colui che è saldamente fondato nell'onestà (asteya) vede venire a sé ogni bene prezioso.
38) Colui che è saldamente fondato nella castità (brahmacharya) ottiene energia virile.
39) Colui che è saldamente fondato nell'assenza di attaccamento (aparigraha) acquista piena conoscenza delle circostanze delle sue vite.
40) Per effetto della purezza (sauca) si prova disgusto per le proprie membra e si evita il commercio con quelle degli altri. [Dalla purezza fisica [sorge] il disgusto per il proprio corpo e la riluttanza a stare in contatto fisico con gli altri].
41) Si ottiene inoltre la purezza del sattva, tranquillità, unintenzionalità, vittoria sui sensi, attitudine alla visione del Sé.
42) Per effetto dell'appagamento (samtosa) si ottiene piacere senza eguale.
43) Per effetto dell'ascesi (tapa) [si consegue] la perfezione del corpo e dei sensi grazie alla distruzione delle impurità.
44) Per effetto dello studio delle sacre scritture (svadhyaya) si incontra la divinità prescelta.
45) Per effetto della dedizione totale al Signore (Isvara-pranidhana) [si attinge] la perfezione dell'enstasi (samadhi).


La lucerna dell' hata yoga - hata-yoga-pradipika di Svatmarama (tratto dalla "luverna dell'hatha yoga", a cura di Giuseppe Spera, ed. Promolibri)


Lezione prima

16 bis) Gli yama e nyama: La mancanza del desiderio di uccidere, la sincerità. l'onestà, la castità, il perdono, la fermezza, la compassione, la rettitudine, la moderazione nella dieta e la purezza sono i dieci yama. L'ascesi, l'accontentamento, la fede religiosa, la liberalità, l'adorazione del Signore, l'ascolto dell'esposizione della dottrina, la vergogna nel non comportarsi in modo non conforme alle prescrizioni, il retto intelletto, la ripetizione a fior di labbra delle preghiere e l'oblazione sacrificale sono chiamate i dieci niyama da coloro che conoscono i testi dello yoga.

 

Lo yoga rivelato da Shiva - Siva samhita (tratto da "Lo yoga rivelato da Shiva" a cura di Maria Paola Repetto, ed. Promolibri)


Terzo capitolo

17) Non ottengono mai successo [nella realizzazione dello yoga] coloro che sono attaccati ai desideri, quelli che sono privi di fiducia, coloro che non onorano il maestro, quelli che desiderano i beni del mondo, quelli che abitualmente mentono, quelli che sono crudeli nelle loro parole, quelli che non soddisfano il maestro.
33) Lo yogin eviti decisamente queste cose: [... ] il furto, la violenza, l'ostilità verso la gente, l'egoismo, la disonestà, il digiuno, la falsità, la compagnia delle donne, il culto del fuoco, il parlare troppo di cose piacevoli e spiacevoli, il troppo cibo.
34) Lo yogin segua sempre e solo questi precetti: [...] ascolti discorsi di verità; osservi sempre i doveri di capofamiglia, ma con distacco; ripeta incessantemente il nome di Visnu; ascolti suoni straordinariamente dolci; sia dotato di fermezza, pazienza e purezza; pratichi l'ascesi; sia modesto e devoto; renda omaggio al maestro.

 

Yogatattva-Upanisad

26) ...dei dieci raffrenamenti (yama), per esempio,
quel che più importa è l'astenersi
dal cibo troppo ricco;
27) il più importante
dei dieci obblighi (niyama)
è quello che prescrive la non-violenza (ahimsa).

 


Postfazione

Quest’ultima parte non è perfettamente organica, poichè riunisce una serie di spunti che potrebbero essere sviluppati.
Dopo sette anni rifletto nuovamente su questo scritto che rappresentò una tappa cruciale e una svolta fondamentale nella mia pratica dello yoga. Fino ad allora il mio interesse si era rivolto principalmente allo hata-yoga, intesa come pratica fisica. Scoprire che vi era un substrato etico così rigoroso mi fece dubitare delle mie reali capacità in questo ambito. Per qualche tempo esitai, poi compresi che l’unica via percorribile era quella sperimentale; radunai il mio coraggio e decisi di mettere alla prova le mie (modeste) capacità. Questo approfondimento mi costrinse a confrontarmi con i temi basilari dello yoga, di cui yama-niyama sono i pilastri: anche le più ardite costruzioni dell’uomo, come le piramidi, non sarebbero mai state costruite se le basi, umili e invisibili, non fossero state assolutamente solide. Così, nello yoga, non può essere raggiunta la vetta (l’enstasi, illuminazione, nirvana...) senza porre adeguate fondamenta (yama e niyama).
Questo breve poscritto vorrebbe essere inoltre una testimonianza di quella che è stata la mia pratica di questi anni. Quando scrissi le mie considerazioni su yama e niyama, vivevo da solo, abbastanza isolato in me stesso, praticando assiduamente la disciplina. Ora ho una compagna, dei figli. Il tempo che posso dedicare a me stesso e alla sadhana si è estremamente ridotto; altre persone hanno bisogno delle mie cure, di attenzione ed affetto. Le situazioni evolvono, la vita è “come l’acqua che scorre”, fluida, senza soluzioni di continuità. Eppure i precetti di yama e nyama non ne vengono scalfiti, non presentano alcuna incrinatura. Hanno una loro validità universale, anzi, in situazioni differenti si arricchiscono di significato e profondità. Negli anni vi possono essere delle piccole vittorie, piccole sconfitte, ma secondo me ciò che è veramente essenziale è perseguire una meta con determinazione. Si può sbagliare, si possono avere debolezze. E’ importante rendersene conto, accettare serenamente le situazioni che questi casi particolari ci donano. Quando si presta questa attenzione, anche il concetto di ”karma” non è più astratto, ma lo si comincia a vedere operare. Io riesco a percepirne solo i meccanismi più grossolani; ma sono convinto che perfezionando la pratica, si dispieghi gradualmente ai nostri occhi il meccanismo che agisce, con una giustezza che nessun giudice umano ed anche celeste (se analizziamo i miti greci, ebraici, cristiani ed anche hindu) sarebbe in grado di raggiungere. Alcune persone grandemente avanzate sono in grado di perseguire il precetto di amore universale istintivamente; la maggior parte di noi deve affinasi attraverso alla sofferenza che le azioni ingiuste ed interessate ci provocano. Se le accettiamo passivamente, o ci ribelliamo senza analizzare le cause della nostra situazione attuale, faticheremo molto ad avanzare. Al contrario, quando ci rendiamo conto che le attuali situazioni dolorose sono il frutto di una serie di nostre azioni commesse, allora potremo con il tempo affrancarci dalle azioni che procurano dolore, e divenire veramente dei jiva-mukta, liberati viventi.
Riferendoci nuovamente ai testi, negli yoga sutra (vedi paragrafi precedenti), ben venti aforismi su di un totale di centonovantasei trattano di questo argomento. Patanjali fu di una sinteticità esemplare, e non si trova nella sua opera un solo termine ridondante o superfluo, perciò questo ci insegna quanto l’osservanza di yama e niyama sia importante nel contesto globale della sadhana quotidiana, di una pratica propedeutica o anche autonoma. Anche le siddhi che derivano dalle osservanze hanno una loro ferrea logica; esse non sono da perseguire e neppure dei traguardi, ma degli indicatori accurati del nostro stato di avanzamento; considerati come tali, quando se ne è presa coscienza, possono essere abbandonati senza rimpianto.
Lo scopo del raja yoga è delineato nel secondo verso degli Yoga sutra: “Yogas citta-vrtti-nirodhah” , acquietare i vortici della mente. Questa è la spiegazione tecnica, perfetta nella sua essenzialità. Ma noi spesso abbiamo bisogno di una spiegazione più “emotiva”. Ho riflettuto a lungo su ciò, e ritengo che lo scopo sia la ricerca dell’armonia. Certamente non è una conclusione travolgente, ma in linea con la tradizione. L’Universo osservato ad ogni livello, sia nell’infinitamente grande che nell’immensamente piccolo mostra un altissimo grado di armonia. L’uomo, che racchiude in sé un infinitesimo frammento del cosmo, ricerca istintivamente questa armonia. Compatibilmente al suo grado di coscienza, manifesta questo impulso in modi totalmente diversi. Un saggio illuminato realizzerà in modo pienamente cosciente questo obbiettivo, lasciando spesso nel mondo un’impronta indelebile; le persone comuni, tenderanno a ciò in modo più o meno inconscio e confuso; esseri di basso livello spirituale in balia di avidya e tamas, agiranno in modo apparentemente antitetico rispetto all’obiettivo. Anche la storia umana, vista sotto questa luce, permette una diversa chiave di lettura. I romani, all’apice della loro potenza, sottomisero tutto il mondo allora conosciuto. Cosa li spingeva? La sete di ricchezza, di potere? Certamente furono componenti essenziali. Ma ritengo che manifestarono così la loro sete di armonia, «omogeneizzando» popoli disparati portando la loro legge, religione, costume. Anche Hitler, e i molti che lo seguirono, perseguendo un sogno folle e perverso cercarono con mezzi terrificanti e luciferini di raggiungere questo scopo, tentando di annientare un popolo che ritenevano inferiore, e con la sua esistenza turbava l’armonia. Gli stessi hindu, ponendo in essere le divisioni delle caste, tesero a creare e mantenere dei gruppi omogenei, impedendo dei “vortici” materiali, dovuti per esempio a unioni tra persone di caste, e quindi a livelli di purezza, diversi. Il socialismo storico, cercò di rendere gli uomini uguali imponendolo dall’esterno, cancellando le peculiarità; per sua stessa natura era destinato a fallire, come tutti gli altri tentativi ingenui e transitori.
La cultura dominante contemporanea considera l’uomo nel suo divenire dalla nascita alla morte come un contenitore che deve essere riempito di sapere e nozioni da accumulare, e questa viene comunemente detta “cultura”. Sottintende spesso una certa dose di passività e la si può considerare una tecnica “additiva”.
Lo yoga tende a porre in luce la perfezione che già esiste in ognuno di noi, solamente nascosta innumerevoli strati di ignoranza e ottundimento. Yama e niyama conducono all’essenza, abbandonando sulla via tutto ciò che è superfluo, e prima di tutto l’attaccamento e la paura, le fonti principali dell’ignoranza. Il perfetto non si attacca a nulla, non possiede alcunché, va al di là delle teorie, delle credenze, della forma e della realtà apparente; in questo senso non crede a nulla, neppure in una divinità in senso tradizionale. La pratica dello yoga è una tecnica “sottrattiva” e squisitamente empirica, personale.
La nostra cultura può essere rappresentata dalla pittura: L’artista, sulla tela vuota aggiunge il colore, trasferisce delle atmosfere, le sue sensazioni. Per contro, lo scultore, quando è veramente ispirato, trae dalla pietra ciò che esiste in potenza e aspetta di essere portato alla luce: scava, affina, ma non aggiunge niente alla perfezione nascosta, in attesa. Ognuno di noi nel suo profondo, come in uno scrigno, possiede già l’essenza; semplicemente si è dimenticato la chiave per raggiungere il tesoro. Le pratiche per risvegliare questa memoria sono innumerevoli, e non ultima la nostra disciplina.
Fino all’inizio di questo secolo, sebbene la maggior parte delle persone svolgesse un faticoso lavoro fisico, aveva un ambito ristretto, i ritmi erano più lenti, c’erano poche fonti di distrazione e quindi se una persona era portata all’introspezione, aveva modo di concentrarsi sull’oggetto della sua ricerca interiore. Attualmente invece l’uomo, come le sue macchine, è diventato anch’esso “multimediale”, come lo ha definito Marilia Albanese; ovvero agisce su più piani contemporaneamente. Oggi non è certamente deplorevole essere “impegnatissimi”, “non avere un attimo di respiro”; anzi, per molti è uno status-symbol di una apparente modernità. Tutti noi sappiamo, senza tuttavia riuscire veramente ad opporci, che questa eccessiva frammentazione non porta nulla di veramente buono, e certamente non arricchisce lo spirito. Se l’obbiettivo dello yoga è “calmare i vortici della mente”, la vita contemporanea ci indirizza su una strada sostanzialmente opposta. Sta a noi trovare l’equilibrio tra attività e contemplazione; una pratica costante di yama e niyama ci mantiene inoltre in un’attenzione sottile su quella che noi normalmente consideriamo la realtà; ci aiuta pertanto a essere anche spettatori della rappresentazione di cui siamo attori; restando in questo piano leggermente superiore a quello in cui noi siamo abituati ad agire, possiamo essere più distaccati, e considerare la nostra vita frenetica con una certa distanza, restandone meno coinvolti dal piano emotivo e spirituale.
Mi accorgo spesso di contrapporre la cultura occidentale con quella dello yoga: questa tendenza è riduttiva, infatti, come ho già accennato altrove, anche nella nostra cultura tradizionale cristiana esistono valori analoghi: semplicemente oggi li abbiamo scordati, ovvero li abbiamo davanti agli occhi ma siamo ciechi. Semplicemente scavando nella nostra tradizione di qualche decennio fa, quando le condizioni di vita avverse rendevano le persone più disponibili verso gli altri e meno attaccate al benessere personale, potremmo ritrovare la strada dimenticata.
In questo senso, forse si riesce a superare la dicotomia oriente-occidente, cristianesimo-induismo. Tutti noi, ed io per primo, siamo portati a confrontare le varie tradizioni, come trattato nel terzo paragrafo. Però, oltre un certo limite, questo confronto diventa sterile. Se vogliamo veramente cambiare la nostra situazione spirituale, abbiamo due alternative: restare nel mondo, o ritirarci in qualche convento e dedicarci alla contemplazione. Alcuni hanno intrapreso questa seconda, difficile via. Dei molti occidentali che sinceramente sono andati in Oriente ed hanno intrapreso quel percorso, pochi hanno trovato la vera via che conduce alla liberazione: per esempio, un tibetano è fin dalla nascita abituato ai rigori del freddo, ad una vita senza comodità, in cui tutto si riduce all’essenziale. Un’occidentale, che intraprende questo percorso, si trova a dover affrontare anche queste difficoltà, oltre allo shock culturale. Perciò le sue energie in parte considerevole vanno utilizzate per raggiungere uno stato che per ogni bimbo tibetano è già connaturato. Inoltre, se noi siamo nati in Occidente, questo avrà un senso, relativamente alla legge del karma. La Baghavat-gita incessantemente ammonisce ad agire disinteressatamente, o se questo è troppo difficile, offrire l’azione al Supremo: questo è un sistema infallibile che induce distacco e serenità interiore. Yama e niyama possono avere un effetto simile. Se noi continuiamo ad agire come il solito, cercando comunque di evitare le occupazioni palesemente inutili, le pratiche di astensione-obblighi, ci obbligano a mantenere sempre un controllo vigile su noi stessi: mentre agiamo (nella realtà ordinaria), la coscienza rimane sempre vigile per vagliare le nostre azioni (diventando un sistema di controllo della realtà): sperimenteremo un duplice stato, come se vedessimo la scena da due angolazioni diverse, la prima usuale, la seconda con una prospettiva più ampia, agenti e osservatori neutrali allo stesso tempo. Il giudizio su noi stessi diverrebbe maggiormente acuto ed imparziale, distaccandoci progressivamente dalla meschinità dell’azione interessata.

 

Bibliografia


Anonimo Bhagavad Gita

Anonimo Lo yoga rivelato da Shiva
Cella G. Yoga
Coccioli C. Buddha e il suo glorioso mondo
Davies P. La Superforza
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Hawking S. Dal Big Bang ai buchi neri
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Patanjali Sutra sullo Yoga
Schopenhauer A. Il mondo come volontà e come rappresentazione
Schuré E. I grandi iniziati
Svatmarama La lucerna dello Hata Yoga
Taimni I. K. La scienza dello Yoga
Vari Il Vangelo
Varenne J. Le Upanishad dello Yoga